Siegmund Ginzberg, La Repubblica 30/11/2013, 30 novembre 2013
LA CONSOLAZIONE DEL BOIA STORIE DI PATIBOLI IN EUROPA
Nel gennaio 1581, a Michel de Montaigne, appena arrivato a Roma, capitò di assistere a un’esecuzione capitale. Rimase colpito dalla spettacolarità dell’apparato devozionale e, al tempo stesso, dalla semplicità del supplizio, senza le crudeltà addizionali allora normali in Francia. Due secoli dopo, nel 1787, un altro viaggiatore, Wolfgang Goethe, descrive anche lui una scena in contrasto con le cupe esecuzioni in Germania. Clamori per strada lo spingono ad affacciarsi alla finestra, e da lì vede un condannato graziato accompagnato con tutte le cerimonie da una confraternita fin sotto un patibolo eretto per finta: «Un bell’uomo del medio ceto, ben pettinato, in marsina bianca, cappello bianco… teneva in mano il cappello, e se gli avessero applicato qua e là dei nastri colorati sarebbe stato pronto per andare a un qualsiasi ballo in maschera».
Per secoli in tutta l’Europa cristiana il condannato a morte era solo carne da macello, da impiccare, decapitare, fare a pezzi, sventrare, squartare, spellare, bollire, bruciare, propagginare (cioè soffocare a testa in giù nella terra, nella melma o nello sterco), per poi la-
sciarlo in pasto ai corvi. Ma in Italia era un po’ diverso. Veniva ammazzato, e prima ancora magari torturato, mazzolato, arrotato, amputato. Ma in modo più cerimonioso, se non addirittura garbato. Ci si riferiva a lui con tenerezza, definendolo “il Paziente”, o l’”Afflitto”.
Si raccoglievano le sue confessioni. Però nel vincolo del segreto, non più per confermare l’accusa o fargli denunciare i complici, come era avvenuto, sotto torture, prima della condanna. Ci si prodigava a confortarlo. Anche se non per salvargli la vita, ma salvargli l’anima. Si faceva di tutto per farlo morire contento. Gli si prospettavano le gioie della vita eterna, il Perdono divino. Si affermò una vera e propria industria del conforto del condannato a morte, del “dolce aldilà” se non proprio della “dolce morte”. Ladri e assassini veri divennero santi all’istante. Solo per gli eretici e per i crimini contro il potere politico il perdono era un po’ più difficile. Le folle accorrevano alle esecuzioni capitali non più solo per far festa e godere dello spettacolo: anche per votarsi ai giustiziati, invocare miracoli, accaparrarsi reliquie.
Non c’è che dire, l’Italia continua a farsi notare in fatto di giustizia. Sappiamo farne spettacolo, teatro - non importa se a volte teatro comico – meglio di chiunque. Siamo maestri nell’inventare procedure bizzarre, rinvii tipo quello con cui Bertoldo non trovava soddisfacente nessun albero a cui essere impiccato. Abbiamo talento nello scatenare e manovrare emozioni, contrapposizioni e fanatismi quasi religiosi in fatto di vicende giudiziarie. Bravissimi nel confondere i ruoli, sappiamo come rendere grottesche le cose sacre e sacro il grottesco. Un libro, la più recente fatica di Adriano Prosperi, ancora una volta sul tema giustizia, ci aiuta a capire perché certe caratteristiche fanno parte del Dna nazionale.
Delitto e perdono. La pena di morte nell’orizzonte mentale dell’Europa cristiana. XIV-XVIII secolo (Einaudi) non è un pamphlet. Non è un libro sull’attualità. È un ponderoso e serissimo libro di storia. Come dice il sottotitolo, è una carrellata lunga cinque secoli e quasi seicento pagine nelle originalità italiane, rispetto al resto del mondo, in fatto di applicazione della giustizia capitale. Non giudica e non fa polemiche. Racconta e documenta. Ma quasi in ogni pagina si può trovare uno spunto, una scintilla che stimola associazioni di idee con l’attualità. La responsabilità è in genere affidata alla sensibilità del lettore. Altre volte è esplicita. Come quando l’autore “confessa” la tarda scoperta di un’analogia tra le ragioni che lo avevano spinto per decenni a sfogliare carte di archivio e di biblioteca su quel che potremmo chiamare ”accanimento consolatorio” e le più recenti discussioni sull’“accanimento terapeutico”.
Il filo conduttore è il racconto di come alla professionalità dei magistrati, degli sbirri e dei boia si affiancò quella delle confraternite, misericordie e conforterie addette all’assistenza religiosa al “giustiziando”. Erano organizzazioni di massa: sono loro gli incappucciati presenti, per secoli, in tutte le rappresentazioni di esecuzioni capitali. La coreografia, nonché la ragione sociale della salvezza dell’anima nel mentre si tormenta il corpo, ebbero un successo tale che, grazie soprattutto ai Gesuiti, fu esportata in tutto il mondo, e in particolare nella scenografia degli autodafé dell’Inquisizione. Era un tipo di pietà considerata superiore persino a quella esercitata negli ospedali e a sostegno dei poveri. La loro attività non si limitava a fornire assistenza ai confessori in extremis e ai predicatori che accompagnavano le esecuzioni. Si estendeva all’organizzazione delle ultime ore del condannato, alle esequie e al conforto anche materiale dei superstiti. Si occupavano anche dei lasciti testamentari. Avevano una diffusione capillare nel territorio. Come ora neanche più i grandi partiti. Avevano le proprie regole, gerarchie, sedi prestigiose in tutte le grandi città. Ma anche i propri traffici, tipo il mercato delle storie di vite violente con cui gli addetti alla salvezza delle anime integravano le entrate. Una curiosità: il più importante di questi che da tempo dovrebbero essere “enti inutili”, l’Arciconfraternita romana di San Giovanni Decollato dei Fiorentini, esiste ancora, nella sua sede originaria.