Federico Rampini, La Repubblica 30/11/2013, 30 novembre 2013
I JET DI PECHINO ALL’INSEGUIMENTO SCONTRO APERTO CON USA E GIAPPONE
NEW YORK — È un crescendo di tensione militare nei cieli sopra il Mare della Cina orientale. Ieri i jet militari cinesi si sono alzati in volo per sorvegliare il passaggio di apparecchi americani e giapponesi. Alla vigilia di una cruciale missione del vicepresidente Joe Biden in Estremo Oriente, l’allarme aumenta. Un “incidente” potrebbe sfuggire al controllo delle superpotenze, fino a precipitare in una crisi vera e propria. A Washington, fonti della Casa Bianca e del Pentagono concordano su un punto: «Il presidente cinese Xi Jinping ha fatto un errore di valutazione sulle intenzioni americane». Un errore che può ricacciare indietro di molti anni i rapporti Usa-Cina, ma anche provocare un riarmo del Giappone e di altri paesi che si sentano minacciati dall’espansionismo cinese.
Pechino aveva iniziato l’escalation, “annettendo” unilateralmente al proprio spazio aereo sovrano i cieli sopra le isole Senkaku (nome nipponico in uso dall’Ottocento, quando le isole finirono sotto la giurisdizione di Tokyo) o Diaoyu, il termine usato dai cinesi. Un gesto respinto dal governo di Shinzo Abe a Tokyo, e dal suo alleato americano. Una prima missione di due bombardieri americani B-52, martedì scorso, era stato un gesto esplicito di Washington per sottolineare da che parte sta. In quell’occasione i cinesi erano stati a guardare. Nelle ultime ore invece i cieli sopra quelle isole semi-deserte (ma circondate da ricchi giacimenti offshore di energia) sono diventati il teatro di una pericolosa “confrontation”.
Usa e Giappone continuano le proprie missioni a decine. Da parte nipponica anche le compagnie aeree civili proseguono i voli passeggeri senza chiedere permessi a Pechino. Ma la Cina non si limita più a guardare, i suoi jet militari decollano con missioni di vigilanza. Fino a ieri non è si trattato di “intercettazioni” ostili, ma un incidente può accadere. E proprio domani il vicepresidente Biden inizia una lunga missione in quell’area. Lunedì ha i primi incontri ufficiali a Tokyo, seguiti dalla visita di Stato a Pechino, infine a Seul. Sette giorni, una durata insolita. Poiché nell’ordine delle tappe la precedenza tocca a Tokyo, il primo messaggio è evidente: l’alleanza di ferro tra Stati Uniti e Giappone sarà rispettata fino in fondo, Obama «intende onorare il trattato bilaterale in tutti i suoi aspetti».
Fonti della Casa Bianca aggiungono una sensazione: Xi Jinping ha creduto di poter approfittare di un momento di debolezza di Obama (ai minimi nei sondaggi sulla sua popolarità in patria) per lanciare un affondo che metta alla prova il ruolo dell’America nel Pacifico. Un errore, ribadiscono gli uomini di Obama. Semmai è proprio questo il momento in cui la leadership Usa vorrà mostrare i suoi muscoli. Nei “briefing” che la Casa Bianca organizza per la stampa, i punti-chiave della missione Biden s’intrecciano con l’analisi della posta in gioco. Anzitutto l’intenzione americana è di continuare a presidiare la zona contesa ignorando qualsiasi diktat cinese e appoggiando la sovranità territoriale del Giappone sulle isole e sullo spazio aereo circostante. Casa Bianca e Pentagono sottolineano la forte intesa con Tokyo e Seul, e il livello di coordinamento anche operativo tra le operazioni della U. S. Air Force con l’aviazione e la marina militare del Giappone.
Le analisi di fonte Usa (in questo caso anche dei think tank indipendenti, non solo le fonti dell’Amministrazione Obama) indicano un errore di calcolo da parcinesi,te della Cina che avrebbe sottovalutato la determinazione degli Stati Uniti ad appoggiare l’alleato giapponese; vista da Washington è la Cina ad essersi messa «in un angolo»: se abbozza, il governo di Pechino perde la faccia nei confronti della sua opinione pubblica nazionalista, se va avanti sulla linea delle minacce si caccia in un sentiero di escalation che non sa dove possa condurre. Una crisi così grave nel Pacifico non si verifica dai tempi dell’aereo spia Usa abbattuto dai col pilota tenuto prigioniero nell’aprile 2001 (era l’inizio della prima Amministrazione di George W. Bush).
La tempistica di questa crisi, esplosa poco dopo l’accordo provvisorio con l’Iran sul nucleare, in un certo senso «obbliga» Barack Obama a essere intransigente verso la Cina, visto che il presidente è già sotto accusa da parte dei falchi americani di politica estera, per la sua presunta “arrendevolezza” in Medio Oriente. Per la Casa Bianca la credibilità degli Stati Uniti non interessa solo Giappone e Corea del Sud ma anche India, Indonesia, Filippine e Vietnam, tutti paesi in vario modo preoccupati dall’espansionismo cinese e che hanno bisogno di essere rassicurati sulla tenuta della leadership americana «come elemento di stabilità e sicurezza in tutta l’Asia».