Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  novembre 30 Sabato calendario

LA RICERCATRICE: “NON CONOSCIAMO NEMMENO L’ITALIANO”


«L’Italia vive male le lingue a partire dalla propria». Per Monica Barni, rettrice dell’Università per Stranieri di Siena, l’ultimo posto ottenuto dal nostro paese nella ricerca Ocse sulla conoscenza dell’idioma nazionale è un segno che non può portare niente di buono.
Professoressa Barni, la ricerca a cui il suo ateneo e Lend hanno contribuito, dimostra che continuiamo a non comprendere l’importanza delle lingue?
«Lo studio ha messo in luce come le politiche nazionali italiane non si siano adeguate a quelle europee. Restiamo un paese “multilingua” dove l’uso del dialetto non riguarda solo gli anziani, ma anche i giovani. L’Italia è all’ultimo posto nell’Ocse, per alfabetizzazione nella propria lingua».
Conosciamo poco anche l’italiano?
«L’analfabetismo di ritorno è molto alto. Ed è grave se pensiamo che la comunicazione sociale è scritta in una lingua molto difficile. Spesso norme e regolamenti sono indecifrabili anche per chi l’italiano lo conosce bene».

Non ci sono strumenti per prendere atto di questa «malattia»?
«Per fare una buona politica linguistica bisogna conoscere la realtà. In occasione dell’ultimo censimento noi con Lend abbiamo proposto all’Istat di inserire, come avviene da lungo tempo in Gran Bretagna, una domanda sulla lingua parlata in casa. Questo avrebbe consentito di ottenere un quadro preciso. Pensiamo anche agli immigrati e ai loro bisogni. Non è stato possibile per i costi troppo alti».
Invece è rimasta una domanda sull’acqua corrente in casa... Questa condizione di partenza ci rende deboli nei confronti degli altri idiomi?
«In Italia le lingue straniere sono poco considerate, c’è scarsa attenzione anche verso la formazione degli insegnanti. Si pensa che se uno conosce una lingua straniera la sa anche insegnare. Non è così. Il mondo anglosassone ha una fortissima tradizione di cura della didattica, nei nostri corsi universitari di lingue questo aspetto non ha rilevanza».
Ma sull’insegnamento dell’inglese non si è investito abbastanza?
«Si è investito ma non bene. Il modello attuale non funziona. I bambini si portano dietro gli errori appresi dalla maestra, che prima del corso l’inglese magari non l’aveva mai visto».
E ora l’inglese arriverà alla materna.
«Ma parlare solo inglese fa male all’inglese. Lend insiste da anni: con i ragazzi bisogna stimolare la curiosità per le lingue. Alle medie gliene insegniamo una seconda oltre all’inglese. Poi questa sparisce. Ci sono paesi dove una seconda lingua si porta avanti per altri tre anni».