Mattia Feltri, La Stampa 30/11/2013, 30 novembre 2013
LA DIASPORA DEI FEDELISSIMI SOLO IL CAPO È INOSSIDABILE
Cade sul lavoro un altro amico di Silvio Berlusconi. È Adriano Galliani poiché anche a lui, come a tutti noi, prima o dopo tocca fare i conti con quella bestia che è il tempo, e che è il magico ricambio generazionale. A tutti, tranne a uno, naturalmente: il capo. Il capo è ancora tale mentre attorno a lui i compagni e i collaboratori di una vita soccombono sotto le botte delle procure e delle nuove leve, o semplicemente della stanchezza e della senilità. Lascia anche Galliani, sessantanove anni, per ventotto al Milan e ventotto trofei vinti: cinque coppe dei campioni, otto scudetti, tre mondiali e le rimanenze. La rottamazione arriva per mano di Barbara Berlusconi secondo la quale, siccome le cose non vanno come andavano una volta, è ora di cambiare e ci penserà lei, così splendidamente spensierata davanti al bottino e alla dignità del predecessore.
La spietatezza è un mostro che ci cammina sempre a fianco. Pensate a come nell’ultima campagna elettorale venne espunto il fraterno Marcello Dell’Utri, uno con addosso le unghie dei pm; il sodalizio di mezzo secolo se ne andò col vento poiché, spiegò Berlusconi, Marcello è innocente innocentissimo ma ci sono momenti in cui non ci si possono permettere gli indagati in lista. Specialmente se il superindagato fa già il numero uno. Dell’Utri rimase fuori dal Parlamento nella stessa tornata in cui ne rimase fuori Nicola Cosentino, che in capo a qualche settimana finì a Poggioreale in detenzione preventiva. Per la vita del re si deve sacrificare la propria, che si porti il titolo di servitori infedeli o fedeli. Ormai è una carneficina. Emilio Fede brancola nell’etere alla ricerca di una telecamera o di un’intervista o di un angoletto qualsiasi di antica gloria. Lele Mora, pure finito ad assaporare la cella, cerca riscatti spirituali. Maurizio Costanzo dov’è? E Paolo Liguori? Ora l’orizzonte è desertificato ma tutto cominciò abbastanza presto, precisamente dieci minuti dopo la prima apoteosi elettorale, quella del 1994, quando, per far tornare i numeri necessari alla fiducia, si sacrificò il liberale Antonio Martino e al ministero delle Finanze venne piazzato Giulio Tremonti, socialista, eletto con Alleanza democratica. La famosa rivoluzione liberale morì in fasce. Sono trascorsi i lustri portandosi via le illusioni, e anche Tremonti sverna ai margini dell’impero.
Chi ricorda gli avvocati degli esordi? Cesare Previti, certo, uno dei tanti che hanno preceduto Berlusconi nella rovina giudiziaria. Ma Raffaele Della Valle, che era capogruppo alla Camera? E Vittorio Dotti? E poi Gaetano Pecorella? Intanto la morte si è presa Lucio Colletti e Piero Melograni, e quest’ultimo soltanto l’anno scorso, quando nessuno nel centrodestra sapeva nemmeno chi fosse e che avesse scritto. E dimenticato è il delizioso giurista liberale Alfredo Biondi. Giuliano Urbani si fa ormai i fatti suoi. Gianni Letta, il sommo ambasciatore, ha diritto a un laticlavio per i servigi prestati, ma sul campo non occorre più. A Paolo Bonaiuti grosso modo è andata alla stessa maniera. Letizia Moratti ha chiuso. Tiziana Parenti ha chiuso presto. Tanti se ne sono andati, che fossero famigli (Renato Schifani, Roberto Formigoni, Beppe Pisanu, Roberto Antonione) o affini (Pierferdinando Casini, Gianfranco Fini, Rocco Buttiglione). Si potrebbe proseguire a lungo, in un pezzo ormai commemorativo di una folla boccheggiante ai piedi del sire che resta sul trono, o almeno così ritiene. Vuole rilanciare Forza Italia, vincere le elezioni, riprendersi il mondo stavolta insieme con la figlia Barbara («al Milan non si è speso poco, si è speso male»), con la fidanzata Francesca Pascale («a palazzo Grazioli si pagavano i fagiolini ottanta euro al chilo») e con qualche altro volenteroso soldato della Silvio Jugend.