Michele Brambilla, La Stampa 30/11/2013, 30 novembre 2013
LA CENA DI LEONARDO “MANGIO QUELLO CHE VOI BUTTATE VIA”
L’uomo che ho davanti sta mangiando quello che noi abbiamo buttato via. Si chiama Leonardo Martino, è italiano, ha 53 anni e fa, anzi faceva, il cuoco: da due anni non trova lavoro. Siamo alla mensa della Fondazione Fratelli di San Francesco di via Michele Saponaro a Milano, estrema periferia sud. Solo nel 2012, qui hanno offerto 711.750 pasti: la carità cristiana arriva dove il nostro mondo si è inceppato. Basta guardare chi entra per capire che la crisi ha cambiato l’identikit dell’ospite della mensa dei poveri. Ci sono stranieri, certo: ma sempre più italiani. Pensionati che arrivano vestiti con il decoro di un tempo; e poi padri separati, disoccupati come Leonardo Martino. Quello che è capitato a lui può capitare a molti che non immaginano.
Martino è uno dei 4.068.000 che in Italia soffrono la fame: 428.587 sono bambini con meno di cinque anni.
Dal 2010 a oggi il numero di questi «indigenti alimentari» (così vengono freddamente chiamati nelle statistiche) è aumentato del 47 per cento, e la gran parte di questo 47 per cento è costituita da italiani.
Perché dico che quest’uomo mangia quello che buttiamo via noi? Perché, anche se continuiamo a lamentarci per via della crisi, noi italiani schifiamo ogni anno 6 milioni di tonnellate di cibo perfettamente commestibile. Tradotto in soldi, tredici miliardi di euro. E perché lo buttiamo via? Mah. Perché a volte ai produttori pare costi di più tenere che gettare. Perché magari sulla confezione c’è qualche scritta stampata male e non si può presentarlo sugli scaffali del supermercato. Perché è vicino alla data di scadenza, la quale poi è del tutto teorica perché spesso si tratta di pasta o di altra roba che non scade. Perché, più semplicemente, ne abbiamo comprato troppo e in casa non è che si possa tenere tutto.
Oggi è la diciassettesima giornata nazionale della colletta alimentare, organizzata dalla Fondazione Banco Alimentare, una storia nata tanti anni dall’incontro di un grande industriale, Danilo Fossati della Star, con don Luigi Giussani. «Vorrei fare qualcosa per la povera gente», disse Fossati: «Quando penso a quanta roba buttiamo via....». Si cominciò così. Solo nella giornata dell’anno scorso, la colletta alimentare ha raccolto novemila tonnellate di cibo donato dai consumatori; in tutto il 2012, poi, il Banco Alimentare ha recuperato 61.552.000 chilogrammi - pari a 180 milioni di euro - di cibo che altrimenti sarebbe stato buttato via. Forse una goccia, nel mare dei sei milioni di tonnellate e dei tredici miliardi di euro disintegrati: ma almeno questi si sono dati una mossa. Oggi, davanti a novemila supermercati, 135.000 volontari del Banco Alimentare chiederanno a chi esce con il carrello della spesa di donare qualcosa, che poi sarà destinato a 8.800 strutture caritative come questa di via Saponaro a Milano: in totale, a 1.800.000 poveri e nuovi poveri. «Da quando c’è la crisi donano parti più piccole della propria spesa», mi dice una volontaria, «ma donano tutti o quasi, e sa perché? Perché dicono: potrebbe capitare anche a me».
La storia di Leonardo Martino è la dimostrazione che le certezze di una volta non ci sono più: «Sono venuto a Milano dalla Puglia che avevo quattordici anni, e a 16 lavoravo già. In cucina al ristorante La Villetta di viale Zara. Poi in altri ristoranti, fino a quando sono andato a vivere in Inghilterra, a Manchester. Ho avuto una compagna, inglese, e due figlie: due gemelle che oggi hanno 15 anni. Undici anni fa mi sono separato e sono tornato in Italia». Dove ha trovato un Paese che cominciava a cambiare: «Avevo 42 anni e già non trovavo più un posto fisso. Mi arrangiavo un po’ di qua e un po’ di là, magari sul lago di Garda. Lavori saltuari. L’ultimo è stato due anni fa qui in via Vigevano, in un Coffee Burger. Facevo hamburger, che per un cuoco non è il massimo: ma insomma. È durata 28 giorni, poi mi è partito il rene sinistro, e ho dovuto operarmi. Uscito dall’ospedale, il posto non c’era più. Ho cominciato a mandare curriculum, perché oggi funziona così: non ti vogliono neanche incontrare per un colloquio, tutto via Internet... Da allora non ho più lavoro, non ho più casa, non ho più niente. Vivo qui alla Fondazione dei Fratelli San Francesco, e meno male che ci sono questi, altrimenti non saprei dove andare a sbattere la testa».
Gli chiedo come sia possibile che non salti fuori proprio niente. «Preferiscono prendere gli extracomunitari, manodopera meno qualificata ma a basso prezzo. Con 5-600 euro al mese, trovano uno che fa hamburgher fino a notte fonda. Guardi: uno degli ultimi lavori lo avevo trovato in nero. Me lo aveva dato un napoletano, di cui non faccio il nome: ha un ristorante qui a Milano. È durata quattordici mesi. Le dico la verità: io, a questo punto, lavorerei anche in nero. Ma non trovo più neanche quello. E non troverei neanche un posto regolare da 5-600 euro al mese come quelli che danno agli extracomunitari, e sa perché? Perché sono vecchio. Sono troppo vecchio per trovare lavoro e sono troppo giovane per andare in pensione. Non le pare un paradosso?».
Uno dei tanti paradossi. Cose che capitano in un Paese dove ogni anno quattro milioni di persone non hanno di che mangiare e sei milioni di tonnellate di cibo vengono buttate via. Cifre che ci fanno capire che nel nostro mondo c’è, ancor prima della crisi, qualcosa di storto, probabilmente a partire dal nostro modo di vivere di tutti i giorni.