Laureta Colonnelli, Corriere della Sera 27/11/2013, 27 novembre 2013
Se il quadro con la Madonna di Foligno avesse memoria, ricorderebbe i lunghi viaggi affrontati in passato su carri trainati da buoi
Se il quadro con la Madonna di Foligno avesse memoria, ricorderebbe i lunghi viaggi affrontati in passato su carri trainati da buoi. Quello del 1565, dalla basilica di Santa Maria in Aracoeli a Roma fino alla chiesa delle monache di Sant’Anna a Foligno. Quello del 24 febbraio 1797, quando in seguito al Trattato di Tolentino, che spogliava lo Stato Pontificio delle sue più celebri opere d’arte, la tavola fu spedita prima a Perugia e poi, attraverso i sentieri sconnessi delle Alpi, fino al Grande Museo Napoleonico del Louvre a Parigi. Quello del 1816, quando la mediazione di Antonio Canova riportò la Madonna in Vaticano. Ma questa volta vi arrivò arrotolata. Perché nel frattempo aveva compiuto il suo viaggio più spericolato, passando dalla tavola alla tela. Durò sette mesi, dal 12 maggio 1800 al 21 dicembre 1801. La tavola si era spaccata, lo strato pittorico in alcune zone si era sollevato, in altre era caduto. «Senza questo trasporto forse il dipinto si sarebbe perduto», dice Paolo Violini, che due anni fa ha eseguito l’ultima pulitura. Violini controlla anche le operazioni del trasferimento a Milano, insieme a Vittoria Cimino, responsabile dell’Ufficio del Conservatore dei Musei Vaticani, e a Valeria Merlini e Daniela Storti che curano la mostra sponsorizzata dall’Eni a Palazzo Marino. Iniziano alle sei di mattina, quando la Pinacoteca è ancora chiusa al pubblico. La tela, alta circa tre metri e larga due, è appesa nella sala dedicata a Raffaello, accanto alla Pala degli Oddi e alla Trasfigurazione, e circondata dagli arazzi progettati dall’artista di Urbino per la Capella Sistina. La Madonna di Foligno viene staccata dalla parete con estrema delicatezza e depositata di fianco, su un carrello che scivola fino al montacarichi. Quattordici minuti per scendere di appena sette metri, fino al piano sottostante dove si trova il laboratorio delle pitture e dei legni. Qui Cimino e Violini fissano i due sensori destinati al monitoraggio dell’opera durante il tragitto da Roma a Milano a bordo di un camion. All’arrivo, la doppia cassa climatizzata, realizzata in legno ignifugo e sospesa su otto skid mates (sorta di palloncini alti quindici centimetri) per ammortizzare anche il minimo urto, viene aperta e la tela trasferita immediatamente nella teca di vetro sigillata che la proteggerà per tutta la durata dell’esposizione. Anche dentro la teca ci sono sensori. Basta la minima variazione della temperatura o dell’umidità per far scattare l’allarme. Visto da vicino, il dipinto rivela la brillantezza dei colori riapparsi nel restauro di due anni fa, eseguito in occasione dell’esposizione a Dresda. «La vernice protettiva stesa durante i restauri del 1958 si era ingiallita», racconta Violini. «I colori freddi di Raffaello erano penalizzati dall’ingiallimento, le tonalità scure si erano schiarite e appiattite. Inoltre ho scoperto che il marrone del saio indossato dal francescano era una stesura non originale. Ho provato a pulirlo ed è apparso il grigio cinerino, il colore vero dei francescani nel ‘500». Dice che i più difficili sono stati i ritocchi del turchino e del rosso sulle vesti della Madonna. «La purezza del lapislazzuli e del cinabro era tale che le nuove integrazioni viravano tutte al grigio. Osservando in sezione al microscopio lo strato pittorico si vede che il blu è un blu assoluto, un lapislazzuli pulito da ogni impurità, difficilissimo da trovare in altri pittori. Raffaello non amava le sorprese, preparava tutto al millesimo». Sul retro, il telaio è carbonizzato per una ventina di centimetri. Accadde una trentina di anni fa: un visitatore in carrozzella gettò sulla tela un liquido infiammabile e appiccò il fuoco. Se ne accorse un custode, che soffocò le fiamme con la propria giacca. La tela non subì danni. Ma nel parapiglia che seguì non si accorsero che dietro continuava a bruciare. Lauretta Colonnelli lcolonnelli@corriere.it