Filippo Manvuller, Libero 29/11/2013, 29 novembre 2013
LA ’NDRANGHETA STRITOLA BRESCELLO LA FINE DEL PAESE DI DON CAMILLO
Un tempo era il paese delle eterne diatribe tra don Camillo e Peppone, il set dei racconti cinematografici ispirati dai libri di Giovannino Guareschi. Un luogo simbolo della Bassa, dell’Emilia operaia e guascona, delle «lotte di classe» e del lavoro. Oggi Brescello è un paese violato dalle infiltrazioni delle cosche, dal potere mafioso che si innesta nel tessuto di una cittadina che ha perso la verginità 21 anni fa, quando un commando di malviventi travestiti da carabinieri uccise Giuseppe Ruggiero, catanzarese che anni prima era stato coinvolto in un giro di auto rubate e ricettazione. Poi ci fu l’operazione «Edilpiovra ». Era il 2003. I carabinieri sventarono un vasto racket di furti, estorsioni, incendi, rapine, cantieri e appalti. Tredici persone in manette, cinquanta perquisizioni. Coinvolti, tra gli altri, Antonio Grande Aracri, Francesco Grande Aracri, entrambi fratelli di Nicolino, per gli amici «Manuzza», ritenuto il capo della cosca di Cutro.
Quei cognomi tornano oggi. L’otto novembre scorso i carabinieri di Reggio Emilia hanno sequestrato beni per tre milioni di euro proprio a Francesco Grande Aracri, già condannato nel 2008 in via definitiva a tre anni e sei mesi per associazione mafiosa. In quel gruzzolo ci sono 16 conti correnti, depositi bancari, due società del settore edile, sei appartamenti, nove immobili commerciali, due veicoli e un terreno. Il boss è stato recentemente denunciato insieme ad altre quattro persone (tra cui i due figli) per concorso in occupazione abusiva di un’area demaniale. Sotto il viadotto della Cispadana, alla periferia del paese, stipava di tutto: attrezzature, macchine da cantiere, ferri del mestiere.
Fu così che «la terra grassa e piatta che sta tra il fiume e il monte» - come la definiva Guareschi - vive oggi l’incubo di Gomorra.
La vita del paese è apparentemente quella di sempre. Cinquemila anime, il museo di don Camillo e Peppone - meta ambitissima dei turisti - la famosa campana che cadde addosso all’attore Gino Cervi, oggi appesa sotto il porticato di via Giglioli, l’antica stazione da cui sembrano ancora sbuffare le locomotive, la Madonnina del Borghetto, il carro armato identico a quello usato sul set, in piazza Mingori.
Tutto qui richiama il «Mondo piccolo» di Giovannino Guareschi. Ed è qui che decine di anni fa incominciarono a ramificarsi i tentacoli della piovra. «Soggiorno obbligato», lo chiamavano. A distanza di anni: uno dei peggiori errori che la storia politica ha consegnato al settentrione, poi alimentato da collusioni e silenzi. «È mancata la vigilanza, ci sono responsabilità oggettive anche della committenza. Da queste zone partivano i camion di rifiuti diretti alla valle del fuoco e nessuno si è mai preoccupato di capire perché quegli smaltimenti costassero così poco e dove andassero a finire », dice oggi Enrico Bini, presidente della Camera di commercio di Reggio Emilia, che ha fondato uno sportello antiracket e da anni collabora con l’associazione anti-mafia Antonino Caponnetto, che proprio questa sera presenterà il suo report semestrale in Comune.
In tutto questo Brescello appare una location ideale per i business predatori dei clan: spalmata nella bassa reggiana, lontana da «sguardi indiscreti», al confine con Mantova e la Lombardia.
«Il brescellese puro dà una mano a tutti», si giustificano da queste parti.
Ma quell’accoglienza è spesso diventata condiscendenza, in un paese stretto tra l’omertà e l’esasperazione. «Se non usa il silenzio le dovremo tirare la canna della rivoltella in bocca», si è sentita dire la segretaria locale della Lega Nord, Catia Silva, che da anni denuncia la situazione e per questo dà fastidio. «Qui tutti sanno, ma hanno paura a parlare», racconta, senza mai tradire la sua tempra combattiva. E con la crisi - fa notare Fabio Ferrari, referente per l’Emilia Romagna della «Caponnetto », l’emergenza aumenta. «Con le loro grandi disponibilità economiche le famiglie promettono aiuto e poi si prendono le aziende». E alla porta non bussano più con la lupara. Ma con camicia e colletto bianco.