Alberto Simoni, La Stampa 29/11/2013, 29 novembre 2013
NELLA GOOGLE CINESE: SOLDI FACILI E CENSURA
La Silicon Valley cinese sta nell’Haidian District, nella zona nord di Pechino. Per raggiungerla dal cuore della capitale bisogna munirsi di pazienza e di un autista disinvolto con il clacson e nel saltare da una corsia all’altra della superstrada.
Il nostro sembra pronto a fare a sportellate con i vicini pur di farci vedere una delle chicche della Cina che punta i suoi artigli sul mondo.
Nemmeno 20 km e 1 ora e mezzo dopo siamo fra edifici nuovi, vialetti e aiuole ben curate. Sotto lo sguardo delle montagne che a pochi passi accompagnano il vento del Gobi in città, svetta il palazzo - in vetro - di Baidu, la «Google cinese». Definirlo solo un motore di ricerca del Web in caratteri cinesi è riduttivo. Baidu (che letteralmente significa «centinaia di volte» e il cui nome deriva da un poema dei tempi della dinastia dei Song, 600 anni orsono) è di più: è un sistema di applicazioni (apps) e congegni per vedere in streaming il Web in tv, è un divulgatore di contenuti.
In questa sua molteplice veste domina il mercato interno con il 64% e già studia una versione portoghese e in arabo per estendere i tentacoli. Ai rivali lascia le briciole: Qihoo ha il 18%, Google, che dal 2011 ha lasciato la Cina spostando armi e server a Hong Kong, non va oltre il 3%. E in un spazio come quello cinese con 600 milioni di utenti, 400 milioni di smartphone e una torta complessiva di 1,3 miliardi di utenti, è lecito per Baidu immaginare un futuro da numero uno sulla scena mondiale.
Kaiser Kuo attende nell’atrio. A destra e sinistra due maxischermi giganti sui quali scorrono mappe, diagrammi e numeri; sono le ricerche/richieste in tempo reale degli utenti. Dati sensibili, fotografare i pannelli luminosi è vietato. Ma utilizzarli in modo spregiudicato no, tanto che nell’Haidian District parlano dei dati degli utenti come di un «Database delle intenzioni». Kuo scherza sul suo nome: «Mi chiamo veramente Kaiser, non sono un imperatore tedesco».
Il look fa il resto, lunghi capelli neri a metà schiena, jeans, giacca nera, parlata svelta, «smart», corpulento. Cura un blog dal titolo arguto «Ich bin ein Beijinger», è scrittore, giornalista e chitarrista di una band molto popolare in città. È nato in America, vive a Pechino, se ne è andato dopo Tiananmen (1989), è tornato da 17 anni, quelli del boom, ora sembra avere una missione: divulgare la filosofia di Baidu e vendere al mondo l’idea geniale del grande capo Robin Li.
È questo cinese 45enne, sposato, 4 figli, ingegnere informatico, l’artefice del miracolo. Forbes lo issa al 4° posto fra gli uomini più ricchi del Paese, fra i primi 200 Paperoni planetari. Ha un patrimonio di 11 miliardi di dollari. La storia della creatura di Robin Li ricorda un film già visto. La nascita della compagnia nel 2000 con quattro soldi e senza una sede stabile, poi la quotazione al Nasdaq nel 2005, una Ipo da 28 dollari e le azioni alla chiusura sfondarono il +350%. Oggi viaggiano sui 160$. Tanti saluti e grazie dissero allora quelli di Google che qualche dollaro nell’avventura di Robin Li lo avevano messo.
Le storie di Baidu e quella del gigante di Mountain View si incrociano spesso; i due si scornano e si ignorano a fatica. Un po’ si copiano. Il luogo di lavoro è informale, look casual, nessuna divisione, open space, ping pong per il relax, solo due regole ferree. «No smoking e no pets», animali. Kuo non risparmia stilettate agli americani. «Dicono che siamo il clone di Google? Non è vero, l’algoritmo magico lo abbiamo inventato noi». «La nostra fortuna in Cina è legata all’addio di Google? Ci piace la competizione, tornino, di rivali ne abbiamo altri 12 fra cui compagnie statali».
E poi ancora la fuga di «geek», maghi dei computer e dirigenti verso Haidian district quando il colosso Usa decise fra il 2010 e il 2011 di chiudere il dominio google.cn. «Basta censure del regime», urlarono indignati a Mountain View. Pechino s’infuriò, tirò fuori una carta del 2006 nella quale Google si impegnava a non far circolare sul motore di ricerca informazioni «sensibili» (Tibet, diritti umani, democrazia). Dal 2011 Google si è ritirata nell’ex colonia britannica e in Cina il suo motore va a singhiozzo, Google Maps anziché strade e città è una pagina bianca.
Baidu invece consente le ricerche sui temi spinosi. Ce lo dimostrano non prima di averci ammonito sulla «ossessione occidentale per queste cose». Kuo digita «Dalai Lama», un attimo dopo compaiono ideogrammi che nemmeno l’interprete ha tempo di tradurre. C’è la foto del leader buddista. Una pagina dei «risultati» normale all’apparenza se non fosse per un avvertimento scritto in alto sul contenuto «pericoloso». È la moneta di scambio che esige il Partito comunista per garantire il business. «Siamo una compagnia privata e stiamo nelle regole» spiega Kaiser Kuo senza battere ciglio.
D’altronde i cinesi dei temi sensibili pare se ne «infischino»,al Web non chiedono news ma svago. «Noi garantiamo il meglio e la strada più accurata perché la gente trovi quello che cerca, sappiamo quello che vogliono» (grazie alle mappe dell’atrio). Chiedono app? Baidu compra per 2 milioni di dollari una società che le sviluppa. Di vedere l’Nba? C’è un accordo commerciale per la distribuzione delle partite sul Web, via Baidu s’intende. Se non chiedono direttamente c’è il «database delle intenzioni che suggerisce». E la privacy? Concetto alquanto lontano, i cinesi non sono preoccupati come «voi europei».
Mentre Baidu soddisfa i bisogni degli internauti locali, Xi Jinping, il Presidente che qui già paragonano a Deng Xiaoping, l’uomo dell’apertura di Pechino al mondo e alle riforme, se ne esce dal Terzo Plenum con un giro di vite sul Web. Più censura e più controllo. Tradotto, firewall e blocchi per i siti insidiosi continueranno. Twitter e Facebook invisibili, Google in littorina da Hong Kong. Baidu sull’alta velocità delle reti risponde presente a ogni quesito. «Libero Web ma con l’avvertimento di Stato».