Mirella Serri, La Stampa 29/11/2013, 29 novembre 2013
MI È SEMBRATO DI VEDERE UN ORSO
Per Goethe, nella poesia Il serraglio di Lili, l’orso è la buffa incarnazione dell’innamorato ammaestrato e mansueto. Johann Strauss II in un suo pezzo ne fece la caricatura dell’amante al guinzaglio della sua donna. Per Robert Schumann incarnò un ballerino goffo mentre decretò la fortuna di Béla Bartók: il musicista conquistò le platee con il brano dedicato al mammifero.
L’orso, che passione! Sempre presente per secoli in favole, quadri, poemi, saggi e sinfonie dove in tanti lo hanno apprezzato, coccolato, evocato, da Torquato Tasso a William Faulkner, da Pirandello a Dino Buzzati (autore de La famosa invasione degli orsi in Sicilia), da Hieronymus Bosch a Richard Wagner, per approdare al cinema, ai fumetti, alla tivù, fino agli orsi da collezione in veste talare, zucchetto e mantellina bianca regalati a Benedetto XVI da un produttore tedesco di giocattoli. L’inquilino delle terre artiche e dei boschi lo troviamo ovunque: nei supermercati, alla stazione, nei negozi per bambini e in quelli per adulti, come gadget e portafortuna. E adesso, mentre si avvicina Natale, arriva il suo gran momento e si rinforzano e si infoltiscono sugli scaffali i ranghi degli ursidi.
A cosa deve tanta incredibile notorietà, lo schivo bestione? Fu l’inconsapevole Plinio a decretare il successo del pigrone che ama ibernarsi: scrisse (erroneamente) che era assai simile agli umani perché si accoppiava proprio come noi. Non l’avesse mai detto: dai padri della Chiesa in poi gli vennero affibbiati tutti i connotati salienti degli uomini, dalla golosità alla lussuria (Shakespeare e Puškin quasi invidiavano i suoi presunti eccessi copulatori), in un secolare percorso di antropomorfizzazione. Ora lo studioso Roberto Franchini, nell’avventuroso viaggio Il secolo dell’orso (Bompiani), ricostruisce e analizza questa lunga escalation del plantigrado nei panni di miglior amico e addirittura di alter ego dell’uomo.
Il saggio ripercorre la storia di questa mutazione culturale dalle origini, mettendo però l’accento sull’ultimo secolo. Proprio agli inizi del Novecento si verificò il sorprendente exploit che cambiò le sorti e la percezione collettiva del simpatico onnivoro. Cos’era accaduto? Il presidente Theodore Roosevelt, «Teddy» per gli amici, durante una battuta di caccia si rifiutò di sparare a un cucciolo di orso che i suoi fedelissimi avevano addirittura legato a un albero per farglielo colpire meglio. Il baby indifeso a cui il Presidente degli Stati Uniti aveva salvato la vita divenne la sua mascotte nella campagna per la rielezione e due negozianti di giocattoli di New York esposero in vetrina un paio di pupazzetti in pezza con il cartello «Teddy’s bears».
Fu un trionfo, mentre in contemporanea la fabbrica tedesca Steiff presentava una nuova linea di piccoli plantigradi, invadendo i mercati con più di un milione di esemplari. I peluche prodotti in serie diventarono l’emblema dei boy scout, della natura da preservare e delle battaglie (come quella di Roosevelt) per la protezione dei parchi americani. Da quel momento l’orso non sarà più solo il gigante buono (oppure crudele e godurioso) ma il cucciolotto quasi umano che andrà alla grande sullo schermo, in serie animate e fiabe.
La lunga marcia degli orsetti in conflitto con la cecità e l’avidità degli uomini conquista il secolo breve e prosegue oltre, includendo personaggi famosi: Yoghi che vive nel parco di Jellystone (storpiatura di Yellowstone) e che, nella pellicola del 2010, si scaglierà contro la speculazione edilizia; il piccolo Bongo che, nato in un circo, vuole la libertà; Lotso, orsacchiotto rosa al profumo di fragola di Toy Story 3, la pellicola di animazione più redditizia di tutti i tempi (un miliardo di dollari di incasso in tutto il mondo); l’ambientalista e anticonsumista Baloo che nel Libro della giungla tesse l’elogio canoro de «Lo stretto indispensabile»; fino all’impellicciato che viene dal freddo della recente pubblicità della Nissan Leaf il quale abbraccia commosso un acquirente dell’auto elettrica non inquinante.
L’appeal dell’animale è tale da farne il più gettonato testimonial di campagne pubblicitarie, dalla Coca-Cola a Greenpeace. L’orso assume su di sé molteplici valenze e può diventare la rappresentazione della pace in epoca di guerra fredda, con gli americani che piazzano un pupazzone di due metri vicino alla porta di Brandeburgo a Berlino per ostentarlo ai tedeschi d’oltrecortina. Assurge anche a simbolo dell’infanzia novecentesca, così diversa da quella dei secoli precedenti, con i soffici personaggi con il costumino a righe dei «Roosevelt Bears» di Seymour Eaton, con il Teddy bear dei primi racconti di Tolkien o di Evelyn Waugh in Ritorno a Brideshead, con i teneri «Orsetti del cuore» degli Anni Ottanta e con Winnie the Pooh che, quando ha male al pancino, si cura con il miele e i cui diritti hanno reso alla Walt Disney cifre stellari.
Elvis Presley gorgheggerà Teddy bear, e tante altre composizioni musicali del Novecento, per la gioia dei più piccolini, sono un monumento all’orso, dai Pezzi infantili di Dmitrij Šostakovic alla Canzone dell’orso di Igor Stravinskij. Il plantigrado, insomma, in tutte le sue innumerevoli salse è oggi l’emblema per eccellenza di un secolo «rimasto bambino», scrive Franchini, dove gli adulti non vogliono crescere (ben rappresentati dall’infantile mister Bean e dal suo inseparabile Teddy bear). Il mito di Peter Pan rinverdisce così, traslocando però dal ragazzino volante all’Orso Bruno della Vodafone, giuggiolone peloso conosciuto da grandi e piccini a cui promette benessere e relax.