Giovanni Sabato, L’Espresso 29/11/2013, 29 novembre 2013
C’È UN TESORO NELLO SPAZIO
«La storia della Terra ce lo dimostra: una specie in un solo pianeta non sopravvive». Lo affermava nel 2005 l’amministratore della Nasa Michael Griffin, e quasi dieci anni dopo ci credono in molti. Le risorse terrestri sono limitate e se non vogliamo restare a secco dovremo andare a cercarne altrove. Così sono sempre più folte le schiere di uomini e donne decisi ad andare a caccia di tesori nelle miniere dello spazio. E magari, a quel punto, andarci a vivere. C’è chi vede il nuovo Eldorado negli asteroidi, da cui spedire a Terra carichi di minerali preziosi, e chi punta a costruire basi sulla Luna o pronostica addirittura colonie marziane autonome dalla civiltà terrestre.
Di recente due società Usa sono uscite allo scoperto con i loro piani di "asteroid mining", lo sfruttamento minerario degli asteroidi: la Planetary Resources, fondata nel 2010, e la Deep Space Industries nata all’inizio di quest’anno. La prima si dice decisa a lanciare entro due anni i primi telescopi spaziali per le prospezioni di asteroidi, fino a metterne in orbita 10-15 entro cinque anni. Saranno strumenti semplici e, astronomicamente parlando, economici, destinati a scrutare le superfici degli asteroidi vicini per capire di che materiali sono fatti.
UNA NUVOLA DI SASSI
La gran parte degli asteroidi circola nella fascia fra Marte e Giove, ma parecchi passano più vicino a noi e sono bersagli ghiotti per i nuovi cercatori d’oro. Il motivo è presto detto. I metalli che possiamo estrarre dalla crosta terrestre sono solo una briciola di quelli racchiusi nel nostro pianeta, perché il grosso, nei rivolgimenti geologici del globo, essendo pesante è sprofondato nelle sue viscere, irraggiungibile. Gli asteroidi viceversa sono i frammenti di un pianeta mancato, che agli albori del sistema solare non è riuscito come gli altri ad aggregarsi ed è rimasto polverizzato in una nuvola di sassi, con i minerali esposti in superficie o appena sotto, pronti a essere raccolti. Inoltre gli asteroidi sono ricchi d’acqua.
Agli astro-minatori tocca quindi di individuare gli asteroidi colmi di metalli preziosi come platino e oro, o di terre rare come l’ittrio e il lantanio, indispensabili in ogni gadget elettronico, o di materie prime come ferro, silicio o alluminio, più ordinarie ma non meno importanti, specie se avranno seguito i piani più ambiziosi che prevedono di colonizzare il cosmo; anche i semplici materiali inerti saranno allora preziosi per costruire piste, strade, edifici.
La Planetary Resources vuole dunque individuare con i telescopi gli asteroidi più promettenti, spedirvi sonde per prelevarne qualche campione da analizzare a fondo, e infine inviare sui bersagli prescelti astronavi con robot-minatori che estraggano i minerali e, come novelli galeoni, tornino a Terra zeppi di carichi preziosi.
Sui tempi, come sempre nelle avventure spaziali, non c’è da giurare: l’anno scorso i due proprietari assicuravano che i primi telescopi sarebbero decollati entro 18 mesi, ora parlano di un lancio nel 2015. Sulla determinazione e sulle competenze, invece, ci sono pochi dubbi. I due fondatori sono Eric Anderson - cofondatore della Space Adventures, l’unica società che finora ha mandato turisti privati nello spazio - e l’ingegnere Nasa Chris Lewicky, direttore dei voli della missione che ha portato su Marte i robottini Spirit e Opportunity. Tra i finanziatori si contano nomi come Larry Page ed Eric Schmidt, il fondatore e il presidente di Google, e oltre 17 mila cittadini che credono nell’impresa e a luglio avevano versato in tutto 1,5 milioni in una campagna di crowdsourcing.
2020: ODISSEA NELLO SPAZIO
La neonata Deep Space Industries si propone di raccogliere metalli dagli asteroidi entro il 2020, e altri avventurieri sono in gara pur con piani meno definiti, alcuni puntando agli asteroidi e altri alla Luna. Ma i privati non sono soli. All’impresa crede anche la Nasa, che nella richiesta di budget per il 2014, annunciata ad aprile, ha incluso 100 milioni di dollari per avviare una missione inconsueta: catturare con una navicella un piccolo asteroide di 7 metri, pesante 500 tonnellate, e trascinarlo vicino a noi, sistemandolo in orbita intorno alla Luna.
L’operazione dovrebbe costare in tutto 2,6 miliardi di dollari e avrà vari scopi, scientifici e per fare test dei viaggi in programma su corpi più lontani. Un indubbio piatto forte è però l’idea di usarlo come banco di prova per lo space mining, sperimentando nel cortile di casa le tecnologie per raggiungere, analizzare e lavorare le rocce spaziali. Non tutti sono convinti che per la Nasa sia il modo migliore di spendere il suo denaro, peraltro incerto per i tagli in corso al budget federale, ma anche gli scettici convengono in genere che l’impresa è tecnicamente fattibile e senza grandi pericoli.
OSTACOLI DA SUPERARE
Vicino o lontano, scavare le rocce spaziali non sarà banale. Le tecniche consolidate a Terra non sempre funzionano nello spazio. La polvere del suolo lunare e di certi asteroidi, la regolite, è estremamente aguzza e abrasiva per i macchinari, e il vento solare la carica di elettricità facendola aderire a tutto ciò che tocca. Inoltre non è così facile restare in orbita o lavorare su un sasso che sfreccia e ruota su se stesso ogni pochi minuti e su cui, in assenza di gravità, chi desse una picconata senza essere saldamente assicurato sarebbe catapultato via dal rinculo.
«Nessuno di questi ostacoli è insuperabile. Serve qualche precauzione ma le capacità di estrazione ci sono già e si stanno sviluppando nuove tecniche», assicura Simona Di Pippo, dirigente dell’Agenzia spaziale italiana. Anche l’Italia contribuisce con tecnologie di primo piano quali i trapani e i meccanismi di estrazione, già usati per prelevare campioni da una cometa nella missione Rosetta, e che saranno su Exomars, la futura missione robotica dell’Agenzia spaziale europea per portare a Terra rocce marziane. Tecnologie innovative italiane stanno emergendo anche per costruire e far funzionare le future basi negli ambienti proibitivi della Luna o di Marte (vedi box di pag. 109).
Il nodo gordiano, secondo Di Pippo, non è la tecnologia ma la volontà. «Pensate ad Apollo: nel 1961 Kennedy fece il famoso annuncio e nel 1969 Armstrong sbarcò sulla Luna. Nel 1972 la Nasa dichiarò di voler costruire lo Shuttle e nel 1981 lo lanciò. La capacità umana di sviluppare missioni spaziali complesse è fuori discussione. Il punto è solo la volontà politica, ovvero i soldi».
Una volontà che non dovrebbe mancare né alle nuove leve di imprenditori Usa orientati alle attività spaziali di forte impronta commerciale, né ai governi, forse poco preoccupati da ipotetiche catastrofi, ma desiderosi di allentare la concretissima dipendenza dalla Cina per molte materie prime cruciali. «Se ci sono i fondi, in 10-15 anni si può fare», chiosa Di Pippo.
COLONIZZARE IL COSMO
Sul piano dei soldi, non tutti sono convinti che la spesa valga l’impresa. Al momento, però, le opinioni sono discordi e fare conti affidabili è difficile. Quando a febbraio l’asteroide di 50 metri "2012 DA14" si è avvicinato inquietantemente alla Terra, la Deep Space Industries ha calcolato che i suoi materiali valessero quasi 200 miliardi di dollari, ma altri l’hanno bollata come una pura boutade viste anche le incertezze sulla composizione.
Un’idea potrebbe però ribaltare il tavolo: le risorse spaziali varrebbero molto di più se non riportate solo a Terra ma usate anche in orbita. Il materiale, a quel punto, potrebbe valere i milioni serviti a spedire lassù lo stesso carico da Terra. Lo space mining, insomma, avrà senso se nascerà un’economia orbitale in cui bisognerà rifornire satelliti, case spaziali, scienziati, turisti, operai, minatori, e via via ogni altro genere di figura che popolerà lo spazio; e allo stesso tempo, la disponibilità di acqua e materiali dallo spazio sarà la condizione perché tutto ciò possa accadere.
Se pochi anni fa l’idea era fantascienza, oggi lo appare sempre meno grazie a nuove tecnologie come robot e stampanti 3D sempre più vicine a poter usare i materiali spaziali per costruire in loco macchinari, moduli abitabili e ogni altro dispositivo, bypassando la Terra.
È lo scenario preconizzato ad aprile sul "Journal of Aerospace Engineering" da Philip Metzger, fisico al Nasa Kennedy Space Center, che dettaglia un vero e proprio piano di conquista dello spazio in sei fasi: con un accettabile investimento iniziale, spedendo sulla Luna 12 tonnellate di materiali in 20 anni, si lanciano macchine e automi che man mano divengono sempre più capaci di autoreplicarsi e autoregolarsi, sfruttando l’abbondanza di energia, acqua racchiusa nelle rocce, e risorse minerarie per costruire escavatori, centrali energetiche e pannelli solari, raffinerie e impianti chimici, e naturalmente ulteriori robot e stampanti 3D.
Così le macchine potranno colonizzare in crescente autonomia prima l’orbita terrestre e poi la Luna, Marte, gli asteroidi e via via gli spazi più remoti, creando le condizioni per un successivo popolamento umano.
«Per capire se è davvero fattibile, serviranno analisi più approfondite», ammette Metzger: «Ma l’importante sarà riuscire in un modo o nell’altro a far partire la colonizzazione, umana o robotica, e il resto verrà da sé. Sarà come in California: fu colonizzata dai cercatori d’oro, ma anche quando l’oro si esaurì, il boom demografico aveva creato un’economia articolata che continuò a prosperare».