Gianni Perrelli, L’Espresso 29/11/2013, 29 novembre 2013
CATTIVISSIMO BATTISTON
[Colloquio Con Giuseppe Battiston] –
È il Commissario Maigret, burbero poi suadente o trasognato quando ragiona tra sé, ma è anche il losco e roco marinaio Grand-Louis, e la sua angosciata sorella Julie, e Simenon che narra di quel morto per stricnina al Porto delle nebbie. Perché lui, Giuseppe Battiston, è qui "il lettore". Colui che con la voce soltanto, giocando sui timbri e i tempi del dire, deve restituire la storia e recitare ciascun personaggio nei tratti chiave e nelle varie sue modulazioni. Nei primi due audiolibri, "Il porto delle nebbie" e "L’impiccato di Saint-Pholien", dei 16 Maigret che in quattr’anni usciranno per le edizioni Emons.
Com’è recitare senza corpo?
«Un esercizio attoriale indispensabile: immaginare le caratteristiche di un personaggio e renderle attraverso la sola voce. Naturalmente Maigret si bea della rappresentazione fisica che ne fece Gino Cervi».
Lei era troppo piccolo, è nato nel ’68.
«In tv li ritrasmettevano ogni estate. Ma lo stesso Simenon sarebbe un personaggio fantastico: erotomane, uomo spigoloso, l’altra faccia di Maigret, e un’imbarazzante facilità di scrittura. Da ragazzo ho iniziato almeno una decina di suoi romanzi».
Iniziato?
«Qualcuno l’ho finito, tipo "L’uomo che guardava passare i treni". Ma, è vero, sono pieno di romanzi lasciati a metà. Altri non mi stanco di rileggerli, come il Márquez di "Cent’anni di solitudine". Di altri, "Questa libertà" del poeta friulano Pierluigi Cappello, credo riuscirò a fare un audiolibro».
A teatro, invece, "L’invenzione della solitudine" di Paul Auster, regia di Giorgio Gallione dell’Archivolto, in una scenografia bianca e nera c’è solo lei, in rigatino nero, con e senza gilet, impermeabile alla Sheridan, con i suoi... quanti chili pesa?
«Non saprei, non vedo una bilancia da anni. Non mi chiederà anche lei cosa mangio, cosa preparo, se cucino per gli amici?».
Per carità! Mi interessa come il corpo gioca nel suo lavoro d’attore e nella percezione che il pubblico ne ha.
«Noi discendiamo dalla commedia dell’arte, che determina i personaggi sulla base di maschere e latitudini. Una stazza come la mia ti sospinge in una tipologia bonaria e rassicurante, che corrisponde a un diffuso bisogno delle persone di essere rassicurate.La cosa mi fa infuriare».
Preferisce i personaggi malvagi o almeno assai discutibili come Paolo Bressan, il protagonista del film "Zoran, il mio nipote scemo" che è ora nelle sale?
«Bressan è un uomo cinico, egoista e profittatore. Eppure incontro chi mi dice: "Si vede che in fondo è un buono...". Mi chiedo: cosa devo fare per apparire cattivo, piantare un coltello nella pancia di qualcuno?»
L’anno scorso girava l’Italia con "Macbeth".
«Era dire al pubblico: vedete? Il male può pesare anche più di 80 chili e non ha per forza il volto di un Brad Pitt».
Come incide un simile riflesso condizionato?
«Con l’alone di simpatia che mi porto dietro, sono ogni volta oggetto di grandissime pacche sulle spalle. Sarà una fissa ottocentesca, ma nella mia educazione c’è che le persone non si toccano a vanvera».
Pesa anche sui registi, le produzioni, le parti che le propongono?
«A volte. Ma io non ho frustrazioni. Neanche mezza. Scelgo ruoli che mi permettono di sviluppare in autonomia il personaggio. E registi che amano il lavoro dell’attore».
Chi citiamo?
«Silvio Soldini ogni volta si chiede: "Che ruolo trovo per Giuseppe? Vediamo ciò che non sa fare". "Zoran" è un piccolo gioiello, figlio della determinazione di Matteo Oleotto e di un piccolo gruppo: cinque anni ci abbiamo messo a perfezionare la sceneggiatura, trovare 1,2 milioni, costo bassissimo, vincere le resistenze di qualche politico di centrodestra che voleva affossare la Film Commission Friuli-Venezia Giulia».
L’altro film attualmente nelle sale in cui lei è protagonista è "La prima neve" .
«Di Andrea Segre, solido passato di documentarista, uno sguardo rigoroso e sensibile senza mai diventare didascalico o manicheo. Con lui avevo già girato "Io sono lì"».
Due storie di solitudine e di integrazione.
«Sì. Contro gli imbecilli che pensano che emigrare sia andare in vacanza, i politici che ripetono "aiutiamoli a casa loro", chi s’illude di fermare un’ondata migratoria con i respingimenti, il dito nella diga. Gente che ci fa passare per un popolo incapace non solo di accogliere ma persino di raccogliere in mare quelle persone».
Se n’era occupato anche in teatro, vero?
«Con Gian Maria Testa, musicista e autore. Nel 2011 dell’esodo da Libia e Tunisia, eravamo in tournée con lo spettacolo su un uomo che a 50 anni perde il lavoro. Mi tornò in mente un poema di Pascoli, "Italy", sull’emigrazione italiana in America: lo portammo in giro in 40 repliche. "Gli orfani del mondo", chiama il poeta i migranti, che come sola patria hanno il cielo: visione disperata e umanissima. Un passato che noi italiani ci siamo scordati troppo in fretta».
Stato di salute del cinema italiano. A Venezia vince "Gra", a Roma "Tir": pare non si trovi altro da raccontare che la strada.
«Magari è un buon segno: si comincia a uscire dai palazzi, dagli interni borghesi».
Non è che in nome dell’impegno mi rinnega il Dottor Freiss, il verboso psicanalista so-tutto-io della fiction "Tutti pazzi per amore"?
«Neanche per idea! Mi fermavano folle di ragazzi delle medie per chiedermi l’autografo! Comunque quella serie aveva su temi come la convivenza o l’omosessualità uno sguardo assai meno superficiale di tanti film e telefilm che ostentano un’insana vocazione a educare i cittadini».
Cinema, teatro, serial, sceneggiati come "Lo smemorato di Collegno". Le manca solo un bel format tutto suo.
«Per la verità subisco anch’io il fascino di fare un programma dal vivo».
Non mi dica gastronomico o comincio anch’io a chiederle cosa mangia e che sale usa...
«Solo sale di Cervia, non raffinato e molto saporito, "il sale dei Papi". Quanto al mangiare, negli anni ho imparato a non farmi avvelenare. Comunque, sì, gastronomico».
Un altro?
«Ma non le gare tra invasati che imperversano in questo paese dove pare che tutti vogliano imparare a cucinare e nessuno a mangiare, tutti chef poi quattro salti in padella perché non c’è tempo! Piuttosto una cosa come il "Viaggio lungo la Valle del Po alla ricerca dei cibi genuini", che Mario Soldati s’inventò nel ’56 agli albori della nostra tv. Per scoprire e raccontare un paese, le persone, come vivono, cosa cambia».
E perché non ci prova?
«Lo abbiamo proposto più di una volta, Matteo Oleotto e io. Tempo un’ora e in bocca ai nostri interlocutori diventava un’altra cosa: "Potremmo metterci dentro un quiz" oppure "Se ne facessimo un bel reality?". In tv va così, vogliono programmi non solo già masticati ma anche già digeriti, in modo che lo spettatore non debba fare nessuno sforzo».
Invece cosa bisogna fare allo spettatore?
«Togliergli via via la terra da sotto i piedi. Spiazzarlo. Provocarlo. Lo sento come un dovere. Io lo faccio in primo luogo con me stesso: è la condizione della ricerca espressiva di un attore».
Come nel testo di Auster?
«Mette in scena il rapporto tra il protagonista e suo padre, uno di quei padri di una volta, assenti, distanti dalla vita familiare e pur presenti nelle circostanze cruciali. E poi con suo figlio».
Lei non ha figli, vero?
«Non ho figli, non sono sposato e non parlo mai della mia vita privata. Ma per trovare la virtù paterna ho l’impressione che dovremo studiare ancora molto: non credo sia una soluzione l’attuale sfasamento dei ruoli, l’abbassarsi l’età e fare cose da giovani per capire i figli, le mamme amiche su Facebook delle amiche delle figlie».
C’è una sua pagina Facebook.
«Non è mia, l’ha allestita un fan e io non sono iscritto. Non ho neppure un sito. Non mi fido della Rete. È manipolabile. Ed è uno strumento per essere controllati».