Emiliano Fittipaldi e Chiara Spagnolo, L’Espresso 29/11/2013, 29 novembre 2013
ARRIVANO I NO TAP
Gianpaolo Tarantini e Roberto De Santis sanno leggere nel futuro. Almeno così sembra, a spulciare alcune intercettazioni del 2009, in cui il lenone di Silvio Berlusconi e l’imprenditore che si autodefinì il «fratello minore» di Massimo D’Alema chiacchieravano della guerra tra due gasdotti. «C’è un tubo che sbarca dalla Grecia a Otranto, che è di Edison, e un altro tubo che sbarca dall’Albania a Brindisi, che è quello su cui stavo lavorando io... La società capogruppo si chiama Tap», spiegava De Santis parlando del progetto Trans Adriatic Pipeline, un gasdotto che dovrebbe portare in Europa il metano dell’enorme giacimento scoperto a Shah Deniz, in Azerbaijan. Tarantini si offre per parlarne con Berlusconi: «Fammi uno schema di cinque righe, gliele do...al ministro dell’Industria, a Scajola...Si mette a pecora quello».
Era il febbraio 2009. Quattro anni dopo, è chiaro che Giampi e De Santis avevano visto giusto: la battaglia per il predominio sul cosidetto "Corridoio Sud" è stata vinta proprio dal consorzio Tap a scapito del progetto Igi Poseidon, ideato da Edison (controllata da maggio 2012 dalla francese Edf) e dai greci della Depa e benedetto dal governo Prodi nel 2007. Se la Tap ha sempre smentito qualsiasi rapporto con i due affaristi, di sicuro la politica ha fatto inversione a U. Berlusconi ha appoggiato la Tap fin dall’inizio, ma anche Mario Monti prima ed Enrico Letta poi si sono spesi con accordi intergovernativi e viaggi di lavoro a Baku, capitale dello Stato caucasico. Così tra pochi giorni, dopo il sì del Senato all’accordo italo-greco-albanese arrivato un mese fa con la sola opposizione di Sel e M5S, la Camera dovrebbe dare l’ok definitivo al gas azero, e i lavori per la costruzione del megacondotto che arriverà a Melendugno, in Puglia, potrebbero iniziare già a gennaio 2015, in modo che l’impianto possa essere operativo nel 2020. A patto - ovviamente - che il ministero dell’Ambiente dia il beneplacito autorizzando la Via, la valutazione d’impatto ambientale consegnata dal consorzio lo scorso 10 settembre.
ORO AZZURRO
In Salento si gioca una partita gigantesca. Non solo da un punto di vista economico, ma anche geopolitico e sociale. Nelle intenzioni di Palazzo Chigi la Tap contribuirà a trasformare l’Italia in una sorta di "hub" europeo del metano, condizione che porterebbe - questa la speranza - maggiore concorrenza sul mercato domestico e un abbassamento dei prezzi al consumo: storicamente al Belpaese il metano costa circa il 20 per cento in più rispetto quello che pagano i tedeschi. D’altra parte, in Puglia il fronte del no è sempre più agguerrito: il gasdotto, protestano decine di sindaci e il comitato "No Tap", rischia di distruggere una delle più belle coste dell’Adriatico. Fosse così, si farebbe a pezzi l’economia di una zona che vive esclusivamente di turismo e eccellenze agroalimentari.
Ma quali sono davvero gli interessi e i player in campo? Tap è un acronimo che nasconde una società anonima svizzera nata nel 2007 - il capitale sociale è di 149 milioni di franchi svizzeri - controllata oggi dalla compagnia di Stato azera Socar, dalla British Petroleum, dalla norvegese Statoil (ognuna ha un pacchetto pari al 20 per cento delle azioni), dalla belga Fluxys (16 per cento), dalla francese Total (10 per cento), dai tedeschi di E.On (9 per cento) e dalla svizzera Axpo (5 per cento). Colossi che da mesi stanno piazzando pubblicità su siti Internet e giornali pugliesi per cercare di spiegare alla popolazione locale la bontà del progetto. «Il percorso del gasdotto», ha spiegato il sottosegretario allo Sviluppo economico Claudio De Vincenti, «dovrebbe svilupparsi lungo la Grecia e l’Albania per approdare in Italia. Sarà lungo 800 chilometri circa, di cui 105 sottomarini nel mar Adriatico, e trasporterà 10 miliardi di metri cubi l’anno, ma la società prevede di raddoppiarli».
Una volta arrivato a San Foca, a poca distanza da Otranto, il progetto prevede la costruzione di un «microtunnel per l’attraversamento della linea di costa lungo circa un chilometro e mezzo, una condotta interrata in terraferma di 10 chilometri e un terminale di ricezione» da edificare a Melendugno. La pipeline dovrebbe collegarsi infine alla rete nazionale gestita da Snam, in modo da poter far arrivare il gas del caucaso anche nel resto d’Italia e d’Europa. Nel progetto, però, non ci sono ancora dettagli sull’allaccio finale: ben 58 chilometri separano il terminal da Mesagne, che è il più vicino snodo di raccordo di Snam. «Una carenza di unitarietà del progetto», attacca il comune di Melendugno, che renderebbe «impossibile» ai vari uffici preposti quantificare le reali ricadute ambientali sul territorio.
TUTTI CONTRO TUTTI
La Tap, conquistando i favori degli azeri lo scorso giugno, in un solo colpo ha sbaragliato non solo la vecchia ipotesi del gasdotto Igi Poseidon di Edison (che secondo il progetto dovrebbe approdare nel porto di Otranto), ma anche l’altro concorrente del "Corridoio Sud", cioè il "Nabucco", metanodotto che dal Mar Caspio sarebbe dovuto arrivare fino in Austria. Un progetto fortemente appoggiato dagli Usa per danneggiare il quarto progetto in gara, quello chiamato "South Stream", promosso da Gazprom per portare in Europa, passando sotto il Mar Nero con arrivo a Tarvisio in Friuli, il combustibile made in Russia. Un mega gasdotto già in fase di realizzazione a cui partecipa, con il 20 per cento, anche la nostra Eni, da anni sponsor importante dell’azienda preferita da Vladimir Putin.
È questo il motivo, spiegano fonti interne dell’azienda guidata da Paolo Scaroni, «per cui non siamo entrati nella Tap: anche se tra Baku e Mosca le relazioni sono buone, il progetto è di fatto concorrente al "South Stream", e noi non vogliamo far innervosire i nostri soci russi». Sarà un caso, ma nessun colosso energetico nostrano, nonostante i tentativi della Socar che si sentirebbe maggiormente garantita da una partecipazione italiana, sembra interessata ad investire in azioni Tap: l’ad della Snam Carlo Malacarne ha ripetuto che le uniche attività che gli interessano sono quelle relative «al conferimento del gas nella rete di trasporto», mentre Fulvio Conti di Enel ha annunciato che potrebbe acquistare la materia prima, ma nulla di più. Un paradosso, visto che la Tap è un affare miliardario che potrebbe far arrivare in Italia circa il 10 per cento del nostro fabbisogno, oggi garantito dalle importazioni dall’Algeria (che pesa per il 35 per cento sul totale), dalla Russia (il 30 per cento) e - in misura minore - dalla Libia.
VIVA LA TAP, ABBASSO LA TAP!
La diversificazione delle fonti d’approvvigionamento, secondo la Commissione europea, è fondamentale da un punto di vista strategico. Anche gli Stati Uniti, che nel 2007 hanno definito come loro interesse prioritario «impedire l’unione energetica di Russia ed Europa», guardano con favore alla Tap: dopo il fallimento del "Nabucco" il gasdotto azero è per ora l’unico concorrente di Gazprom rimasto in campo. Tutti sembrano assai soddisfatti: Enrico Letta, che è andato ad agosto in Azerbaijan per incontrare il chiacchierato premier Ilham Aliyev (succeduto nel 2003 al padre), ha spiegato che «questo gasdotto è importante non solo per il futuro dell’Italia ma per l’intera Ue». Per palazzo Chigi anche i pugliesi dovrebbero mostrarsi felici: secondo il ministero dello Sviluppo economico non solo la Tap investirà in progetti locali («Come un intervento di tutela della costa dall’erosione costiera da 5 milioni di euro»), ma nella fase di costruzione l’opera tra lavori diretti e giro d’affari dell’indotto porterà al Pil regionale «290 milioni euro in più l’anno e circa 2 mila posti di lavoro». Che però diventeranno appena 220 nella fase successiva, quella della semplice gestione dell’infrastruttura.
Se a Roma, Bruxelles e Baku sono in molti a mostrare entusiasmo, altri nutrono invece alcuni dubbi sul reale impatto del metanodotto sulla nostra economia: per Davide Tabarelli, direttore di Nomisma Energia, la portata del gasdotto sarebbe «troppo bassa, mentre gli azeri non potranno fare grossi sconti rispetto ai russi». L’effetto sulle bollette di cittadini e imprenditori, in pratica, potrebbe essere minimo.
I danni sull’ambiente e sul business del turismo, temono invece i salentini, rischiano di essere enormi. La Regione guidata da Nichi Vendola per ora nicchia spiegando di non avere voce in capitolo sulle scelte di Palazzo Chigi, ma in provincia di Lecce 11 amministrazioni comunali e 35 tra associazioni e comitati si sono già schierate con il movimento No Tap, che da mesi protesta contro la costruzione dell’opera. Che, tra emissioni, condotte, tunnel e terminal, secondo un contro-studio preparato da un pool di esperti coordinati dal professor Dino Borri, ordinario del Politecnico di Bari, rischia di mettere a rischio migliaia di ulivi (che la Tap dice di voler ripiantare), l’assetto idrogeologico della costa, una spiaggia e un’oasi protetta, senza parlare dell’ecosistema che vede, tra le specie a rischio, cetacei e tartarughe caretta caretta. Tra Ilva di Taranto e siti d’interesse nazionale come Brindisi e Manfredonia la Puglia è una delle zone più avvelenate d’Italia, e i residenti sono preoccupati per possibili nuove fonti d’inquinamento, anche se sia Tap che il governo hanno promesso che l’impatto ambientale sarà «praticamente nullo». Il movimento non ci crede, ed è deciso a far saltare il progetto a ogni costo. O, quantomeno, a far cambiare l’approdo finale. Finora manifestazioni e sit-in si sono svolti senza alcun problema di ordine pubblico, ma la Digos teme che in futuro il fronte del no possa essere infiltrato da gruppi anarchici provenienti dalla regione, ma non solo: negli ultimi cortei anti-Tap si sono visti anche volantini dei No Tav piemontesi. La lotta d’altronde è simile, e l’obiettivo comune. «Se si usa qui nel Salento la stessa determinazione e la stessa unanimità della Val Susa», ha ragionato lo scrittore Erri De Luca in visita a Melendugno, «non si farà neanche la Tap».