Marianna Aprile, Oggi 27/11/2013, 27 novembre 2013
IL REGISTA: ECCO I SEGRETI DEL MIO FILM
Roma, novembre
Non c’è niente di peggio che chiedere a chi ha appena raccontato una barzelletta di spiegartela. Con le dovute proporzioni, è quello che abbiamo chiesto di fare a Gennaro Nunziante, regista e sodale di Checco Zalone. Quando gli abbiamo proposto di guidarci nella visione di Sole a catinelle, infatti, ha subito messo in chiaro: «Vorrei evitare di fare un’esegesi, svelare presunti significati nascosti e alimentare le assurde tifoserie che in Italia nascono attorno a qualsiasi cosa. In questo Paese sembra che ci si debba muovere sempre per contrapposizioni: nord-sud, ricchi-poveri, vecchi-giovani, destra-sinistra. E ci si divide anche su un film come il nostro, che cerca invece di smascherare le ipocrisie da cui queste contrapposizioni nascono».
Nessun messaggio politico, quindi?
«Non c’è atto che non sia politico, anche gettare una cartaccia nel cestino piuttosto che a terra. Ma è assurdo cercare significati altri in un film che è comico, punto. Solo che in Italia la comicità è qualcosa di serie B, di cui persino l’attore comico finisce col vergognarsi tanto da tentare un riscatto a fine carriera con ruoli drammatici».
Vero che lei e Zalone avete buttato un’intera sceneggiatura prima di questa?
«No. La storia già c’era ma volevamo avere il tempo giusto, che per noi sono almeno due anni. Non ci interessava tenere i ritmi che ha oggi il cinema, abbiamo lasciato decantare. Questo è il primo dei tre film di cui abbiamo deciso proprio tutto, anche il ritmo di montaggio. Io e Luca siamo soprannominati “Edward Mani di forbice”: le scene per noi devono durare un minuto al massimo. Volevamo un film senza tregua, incalzante. E così è».
Quale la difficoltà maggiore?
«Trovare il bambino. Ne abbiamo visti cento, provinati 60, tra gli 8 gli 11 anni. Tutti fingevano di recitare, noi invece volevamo un bimbo vero come Robert Dancs».
Un ruolo così centrale a un bambino di 11 anni ha creato problemi alla lavorazione del film?
«Riusciva a lavorare 10 ore di fila senza mai lamentarsi. Appena cerano dieci minuti di pausa, prendeva il pallone e andava a giocare dietro il set con i miei tre figli, che hanno 9,13 e 14 anni. Mentre giravamo, gli è caduto l’incisivo davanti e abbiamo dovuto trovare di corsa un dentista per fargliene mettere uno finto. Poi anche mio figlio, sul set, si è rotto un dente. Ed è successo anche a una persona della produzione. Alla fine il dentista era lì fisso. E poi c’è stato l’herpes. Un giorno Robert ha perso il cellulare al cinema ed è stato un piccolo dramma, perché il telefonino era il suo unico contatto col papà che è lontano. Si è così agitato che al mattino dopo si è svegliato con un herpes da stress sul viso. Il truccatore ha fatto un miracolo, ma abbiamo anche dovuto rivedere alcune angolazioni di ripresa per riuscire a non inquadrare lo sfogo sulla pelle. Si è creato un rapporto tale, tra noi, che dopo le riprese è venuto in vacanza a casa nostra con la mamma e la sorella. Ha legato molto coi miei figli e ora dice di voler venire a vivere a Bari anche lui».
Perché avete scelto quel taglio di capelli?
«Non lo abbiamo scelto noi, è il suo. Poi lo abbiamo copiato per i flashback di Checco da giovane. Robert è gelosissimo della sua acconciatura, credo provenga dal personaggio di un videogioco molto popolare tra i ragazzi, Galactic Football. Per farlo arrabbiare basta spettinarlo».
Quale è stata la sorpresa più grande?
«Il Molise. Abbiamo scritto il film senza esserci mai stati e quando siamo arrivati per girare ci siamo accorti di averlo descritto in modo anche ottimistico, più moderno di com’è. Ha presente la scena in cui Checco spiega agli anziani del paese come è fatto un bambino? Era già nella sceneggiatura, poi siamo arrivati a Provvidenti e davvero su 80 abitanti non c’era neanche un bimbo. Però è stata un’esperienza fantastica, siamo rimasti due settimane e alla fine di ogni ciak era una grigliata, un banchetto».
I ricchi. Perché, cercarli a Portofino e non, per esempio, in Costa Smeralda?
«Volevamo un posto dove vanno in vacanza i ricchi del Nord, per fotografare un passaggio fondamentale tra vecchi e nuovi ricchi. Una volta esisteva una borghesia che per sopravvivere a se stessa puntava sul mecenatismo, sull’arte, voleva apparire attraverso quello che faceva per il Paese. Poi sono arrivati gli arricchiti, gente che da questo Paese ha solo preso, senza lasciare nulla dopo di sé, rinunciando all’eternità. “L’eternità non è più così durevole”, diceva Mario Luzi. A Portofino ho capito davvero la crisi: lì ormai i ricchi sono tutti stranieri, gente che entra in una galleria d’arte e compra un Fontana da un milione e mezzo come stesse ordinando un cane. Poi esci e ti ritrovi in una scenografia svuotata, nessuna traccia di chi aveva creduto a una pazza corsa all’oro».
L’arricchito, nel film, è Marco Paolini, compagno della mamma di Zoe, massone e traffichino. Non è un’esagerazione?
«Una volta c’era chi fondava le aziende e gli dava il proprio nome. Ora gli amministratori delegati sono scelti dalla politica. S’è perso il valore dell’azienda, ma anche quello dei soldi. Una delle cose più rivoluzionarie che ho visto in tv era una ragazza che negli Anni 90 andava al Costanzo Show a raccontare come riusciva a vestirsi da capo a piedi con 2.000 lire e a fare una cena per i suoi amici con 1.500 lire. Esaltava l’essenzialità senza privarsi di nulla, dando valore al denaro. Nel film da una parte c’è Checco che riempie la casa di elettrodomestici, indebitandosi per accumulare e che poi dice alla finanziaria: “Ma questi vogliono essere pagati da me? Coglioni!”. Dall’altra parte c’è sua zia, che mette il lucchetto al telefono, spegne la tv e si sente male per la bolletta».
Come l’avete scelta?
«Matilde Caterina, un’attrice non professionista di una bellezza antica, trovata in Molise. L’abbiamo provinata con la scena della Defcompilation 2013, quella con le foto dei morti in fila, come le vedevo quando dormivo da mia nonna da piccolo. Del cinema non le importava, è stata una parentesi nella sua vita da contadina e suonatrice di fisarmonica, ma fin dal provino ha avuto grande consapevolezza e autocritica: alla fine mi disse “Non mi sono piaciuta, rifacciamo”».
Agli antipodi della zia c’è Zoe: rampolla radical-chic vegana, che ha un figlio, Lorenzo, affetto da mutismo selettivo per colpa dell’assenza del padre, regista impegnato. Anche qui: non sarà troppo?
«Aurore Erguy, che interpreta Zoe, ha imparato l’italiano apposta per il film, perfetta. L’Italia è piena di Zoe, di figli di ricchi che, vergognandosi dei propri natali, si sono inventati la deriva artistica per occultare cadaveri di padri impresentabili. Zoe non si occupa della fabbrica di famiglia finché non le piove in testa. Nel mentre fa un figlio con un regista che è la nostra presa in giro dadaista di un certo cinema per il quale tutto va male, tutto è tragedia. Le pagine più belle della commedia le individuo in certi film d’autore, in cui fin dalle prime scene puoi dire chi muore, chi viene mollato dalla moglie, chi viene licenziato. Ma ci sarà una cosa, una, che va bene e valga la pena di essere raccontata?».