Giovanni Vigo, Sette 29/11/2013, 29 novembre 2013
I FANTASTICI DECENNI DEL BOOM GRAZIE AL MERCATO COMUNE
Negli anni compresi fra il 1950 e il 1973 l’economia ha fatto registrare uno sviluppo senza precedenti. Essi sono passati alla storia come “gli anni d’oro dell’economia mondiale”. In quel quarto di secolo il ritmo di marcia dell’Italia fu ancora più rapido di quello dei suoi vicini meglio attrezzati: il pil aumentò in media del 5% e fu eguagliato soltanto dalla Germania che stava compiendo uno sforzo eccezionale per ritrovare la prosperità pre bellica. Se il cammino della nostra economia fu insolitamente rapido, non fu altrettanto uniforme: fra il 1951 e il 1963 il reddito aumentò del 5,9% all’anno; nel biennio 1964-65 una severa crisi dimezzò il tasso di crescita; nel quinquennio successivo superò il 6%, per ripiegare infine al 2,2% negli anni 1971-72. Osservate a qualche decennio di distanza, quelle brevi cadute hanno tutta l’apparenza di piccole increspature che non frenarono in alcun modo la risalita dell’Italia nella graduatoria dei Paesi industrializzati. Tuttavia, a parere di molti economisti, la frenata degli anni 1964-65 non fu una semplice contrazione ciclica, ma uno “snodo strutturale” che preludeva agli eventi ben più incisivi di fine decennio.
Gli elevati tassi di sviluppo non spiegano tutto: nel nostro Paese ci fu anche una vistosa trasformazione dell’apparato produttivo, con una decisa proiezione internazionale dell’economia. Fra il 1951 e il 1973, il contributo dell’agricoltura alla formazione del pil era sceso dal 20 all’8%, quello dell’industria aveva guadagnato due punti, quello dei servizi (compresa la pubblica amministrazione) era salito dal 43 al 53%. Il successo dell’Italia si misura ancor più nel settore delle esportazioni. Nei primi Anni Cinquanta il commercio presentava ancora una struttura molto vicina a quella di un Paese semi-arretrato. A partire da quel momento imboccò un nuovo sentiero. Fra il 1951 e il 1973 le vendite all’estero dei prodotti agricoli crollarono dal 14 al 4%; quelle di prodotti alimentari e di tabacco si dimezzarono; le esportazioni di tessili e abbigliamento scesero dal 28 al 17%. Una tendenza opposta mostrarono invece il settore della meccanica che vide crescere le esportazioni dal 21 al 29% e quello della chimica dal 13 al 16%. Furono ridimensionate le voci che avevano costituito per secoli i pilastri delle esportazioni e vennero alla ribalta le produzioni che, tranne la chimica, avrebbero lasciato la loro impronta nei decenni successivi. Un indice incontrovertibile del successo è costituito dall’accresciuta presenza dei manufatti italiani nel commercio mondiale saliti dal 3,9 al 5,5%.
Secondo Augusto Graziani non era tutto oro quel che luccicava. Osservando il ventaglio delle esportazioni si nota che esse erano costituite essenzialmente da «bevande, tessili, abbigliamento, cuoio, calzature, legno e mobilio, ceramica, vetro, materiali da costruzione, prodotti in metallo, macchine agricole e industriali, apparecchi elettrici, autoveicoli, televisori (non però tubi catodici), elettrodomestici, mobili per ufficio». Nei settori d’avanguardia, l’industria italiana non era ancora in grado di competere con quella dei Paesi più avanzati, ma ciò non sminuisce i successi ottenuti dopo il 1950.
Nuovi bisogni. Le condizioni che favorirono uno sviluppo tanto vigoroso dell’economia italiana furono molteplici ma, alla fine, gli storici si sono concentrati su due spiegazioni. La prima muove dalla constatazione che esisteva una grande quantità di bisogni insoddisfatti sia a causa della guerra che aveva dirottato le risorse verso gli impieghi militari sia a causa del ritardo rispetto ai Paesi più avanzati che avevano uno stile di vita al quale tutti aspiravano.
La seconda spiegazione puntava tutte le sue carte sul ruolo delle esportazioni che erano rapidamente cresciute fin dai primi Anni Cinquanta. I numerosi sostenitori del modello export-led ricordavano che fra il 1950 e il 1964 le vendite all’estero aumentarono di cinque volte, con un tasso di crescita pari al 13,4% all’anno, più che doppio rispetto all’incremento del reddito. Di fronte a questi risultati non sembra affatto illogico assegnare un ruolo preminente alla domanda estera. A conti fatti, però, la spiegazione più convincente è quella che combina i due approcci che non si escludono l’un l’altro.
Un fattore spesso sottovalutato è l’impulso impresso alla nostra economia dalla nascita del Mercato comune: calcolando il suo grado di apertura in base alla quota delle esportazioni rispetto al reddito nazionale, osserviamo che esso è cresciuto dall’11,9% del 1951 al 13,7% del 1957 e al 22,4% del 1973. Non è però senza significato che, pur proseguendo lungo un sentiero già chiaramente tracciato, il balzo maggiore sia stato compiuto dopo l’avvio del Mercato comune e che le esportazioni verso i suoi Paesi abbiano fatto registrare, nell’arco di pochi anni, un aumento spettacolare. Fra il 1951-58 e il 1958-63 le esportazioni complessive aumentarono del 60% mentre quelle dirette verso il Mercato comune aumentarono del 120%.
L’impulso allo sviluppo non derivò soltanto dalla spinta della domanda interna o dalle opportunità offerte dai mercati esteri. Contarono anche la stabilità politica, i salari contenuti, la scarsa conflittualità sociale, il trasferimento di tecnologie al di qua dell’Atlantico. Possiamo aggiungere anche fattori più impalpabili come il clima favorevole alla crescita che aveva investito l’economia mondiale. Come ha scritto Simon Kuznets, «la forza che guida lo sviluppo economico è in primo luogo il desiderio degli uomini di disporre di una maggiore quantità di beni. Ma in assenza di mezzi socialmente condivisi per soddisfare questo desiderio, esso può difficilmente costituire un fattore trainante».
Una lezione che non dovremmo dimenticare, così come non dobbiamo dimenticare che lo sviluppo dell’economia italiana fra l’unità e la Seconda guerra mondiale è stata la storia di un successo che, pur tra luci e ombre, ha conseguito risultati significativi preparando le condizioni per la spettacolare crescita della seconda metà del Novecento. Il prodigioso sviluppo degli Anni Cinquanta e Sessanta è stato considerato un autentico “miracolo”. Qualche merito bisogna però accordarlo anche alla storia, perché in economia i miracoli non esistono.
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