Antonio D’Orrico, Sette 29/11/2013, 29 novembre 2013
QUANDO L’ITALIA SCOPRÌ LA SINDROME DI
CALIMERO –
Il 1963 fu un annus horribilis. L’uccisione di Kennedy. La morte di papa Giovanni. La tragedia del Vajont. La fondazione del Gruppo letterario omonimo. Ma successe anche qualcosa di buono. I Beatles uscirono con il loro primo album, Please, Please Me. E, soprattutto, il 14 luglio esordì in televisione Calimero pronunciando la famosa frase: «È un’ingiustizia però!», che sarebbe diventato lo slogan di una generazione (e anche più).
Il pulcino nero della pubblicità Mira Lanza («Ava, come lava») compie cinquant’anni e li porta benissimo anche se Carosello non esiste più (come ha ribadito il clamoroso flop della versione reloaded). Li porta benissimo soprattutto in Giappone dove da tempo è il beniamino dei bambini e ha ispirato ogni genere di gadget diventando addirittura la mascotte di una banca che ne ha stampato la silhouette perfino sulle carte di credito. Anche in Italia non se la passa male e a Milano, sua città natale, in occasione del genetliaco sta per aprirsi (dal 13 dicembre, al Palazzo della Permanente di via Turati) una grande mostra dal titolo (obbligatorio) «È un’ingiustizia però!». E, sempre in dicembre, Rai 2 trasmetterà una nuova e lunga serie di cartoni animati. Sono conferme di un successo che continua ininterrottamente mentre tanti personaggi coevi al pulcino della Mira Lanza sono da tempo in pensione. Ma Calimero in pensione ci andrà difficilmente perché, come scrisse Umberto Eco: «Quando un personaggio genera un nome comune ha infranto la barriera dell’immortalità ed è entrato nel mito: si è un calimero come si è un dongiovanni, un casanova, un donchisciotte, una cenerentola, un giuda». Calimero, poi, si è superato, sconfinando dalla mitologia alla patologia, e ha dato il suo nome alla sindrome caratteristica di un certo tipo di vittimismo.
Un personaggio di questa statura meriterebbe una biografia ad hoc. Da dove cominciare? Il posto giusto per avviare le ricerche è una elegante villetta dalle parti di piazzale Libia. Qui ha sede la Pagot Film, la casa di produzione di cinema d’animazione. Viene ad aprirci la porta Marco Pagot, figlio di Nino Pagot e nipote di Toni Pagot, i due fratelli che hanno inventato il pulcino nero assieme a Ignazio Colnaghi. Marco Pagot è figlio d’arte, disegnatore e illustratore, ed entrò a lavorare nella ditta di famiglia che era ancora quasi un bambino (tanto che studiò da privatista, per non perdere tempo a scuola, così come fece anche sua sorella Gi, pure lei implicata, come autrice di testi, nell’impresa paterna e ziesca).
Dalle donnine alle galline. I Pagotto (così li registra l’anagrafe) erano venuti da Venezia, loro città d’origine, a Milano dopo che il mulino dal quale la famiglia aveva tratto sostentamento era bruciato in un incendio (una classica disavventura di sapore calimerico ante litteram). Nino (nato nel 1908 in calle del Gallo, quando si dice la predestinazione) già a metà degli Anni Trenta era un illustratore affermato firmando tavole e vignette per Il Bertoldo, disegnando per il Corrierino, il Vittorioso, Il Balilla (di cui fu direttore) e tante altre pubblicazioni del genere. Tra le sue specialità c’erano delle perturbanti e sofisticate ladies che gareggiavano con le celebri donnine di Boccasile. Con tutto il rispetto per disegni e illustrazioni, il grande sogno di Nino e del fratello Toni era però un altro: i cartoni animati. Si erano messi in testa di diventare gli autori del primo lungometraggio di animazione italiano. La storia ce l’avevano, un’avventura di ragazzi e per ragazzi intitolata I fratelli Dinamite. Cominciarono a buttarla giù proprio in concomitanza con lo scoppio della guerra. Nonostante le immaginabili difficoltà del momento, erano già a buon punto con il progetto quando un bombardamento mandò in fumo il lavoro fatto. Il film fu terminato solo alla fine delle ostilità. Ricevette molti attestati di stima e stabilì qualche record (fu il primo lungometraggio europeo e il primo film a colori italiano) ma i Pagot capirono che con l’arte per l’arte non avrebbero potuto andare avanti per molto e si dedicarono al cinema d’animazione pubblicitario.
Fin qui la preistoria di Calimero. Facciamo un salto in avanti di qualche decennio e arriviamo al 1962 quando la Mira Lanza per la pubblicità ai propri detersivi, quelli della celebre Olandesina (che secondo me avrebbe potuto avere un grande futuro nel porno), commissionò ai Pagot un personaggio che ispirasse tenerezza a mamme e bambini. Nacque così il pulcino piccolo e nero (perché caduto in una pozzanghera) che non viene riconosciuto dalla madre (la gallina padovana Cesira) e se ne va ramingo per il mondo, con in testa il mezzo guscio del suo uovo a mo’ di casco, alla ricerca della famiglia perduta inanellando una serie infinita di guai. Solo alla fine del Carosello, che durava poco più di due minuti ma sembrava un’interminabile epopea agli occhi dei piccoli telespettatori, la brava Olandesina tuffava il malcapitato nella tinozza del bucato e lo restituiva al primigenio colore bianco spiegandogli che non era «piccolo e nero ma solo sporco». Il nome, Calimero, era stato trovato da Nino Pagot ed era quello del santo e primo vescovo di Milano a cui era (ed è) intitolata la chiesetta dove il disegnatore si era sposato.
L’Italia adottò Calimero e ancora oggi su internet fioccano testimonianze commosse di gente ormai adulta, se non decrepita, che ricorda quando assieme alla mamma vedeva il Carosello prima di andare a nanna. Ma su internet non ci sono solo i fan del pulcino, ci sono anche i suoi detrattori perché, come accade in tutte le cose italiane, si sono formati due partiti: i favorevoli e i contrari, gli amici e i nemici di Calimero. L’accusa principale rivolta al pulcino (con molto senno di poi, ma il senno di prima è ormai estinto a queste latitudini) è quella di essere politicamente scorretto e, in particolare, razzista. A scatenare il dibattito che va avanti da anni è stata la puntata pilota del Carosello, la prima, quella che andò in onda la sera del 14 luglio 1963. Sotto tiro sono, per la precisione, due battute dei dialoghi. Una è quella che Calimero rivolge alla mamma Cesira dopo che la gallina gli ha comunicato che non può essere figlio a lei perché i suoi pargoli sono bianchi immacolati: «Ma se io fossi bianco, mi vorresti?». E la sventurata Cesira rispose: «Certamente, piccolo». La seconda battuta incriminata è pronunciata dall’Olandesina: «Tu non sei nero, sei solo sporco». Su quel «solo» sono stati scritti trattati sul web.
Che c’entra Michael Jackson? I difensori di Calimero invitano alla calma, a contestualizzare la scena nel periodo storico in cui fu realizzata, a considerare la localizzazione geografica (l’Italia degli Anni Sessanta non è l’America di quel periodo ancora nel pieno della questione razziale nonostante le sfide lanciate dai fratelli Kennedy). E poi, fanno notare i difensori del pulcino, i riferimenti cromatici, il bianco e il nero, riguardano, evidentemente, la scala dei valori di riferimento che si adotta quando si parla di bucato e di detersivi, e non si riferiscono al colore della pelle (delle piume, nel caso in oggetto). Inoltre, i tifosi del pulcino suggeriscono di tenere conto che bianco e nero erano i due unici colori della televisione del tempo. I difensori fanno anche della (buona) filologia quando spiegano che lo spot di Calimero è la versione televisiva e detersiva della vecchia favola del brutto anatroccolo.
Ma i nemici di Calimero non demordono. C’è chi arriva a scrivere che Cesira, la mamma del pulcino, è «un mix tra Borghezio e Calderoli». E chi individua in Calimero il prototipo, l’ispiratore di Michael Jackson. Non tanto per questioni musicali (la terribile sigla Calimero Dance cantata da Cristina D’Avena nel breve passaggio che il pulcino fece per le reti Mediaset), quanto per i trattamenti ai quali la rock star si sottopose per sbiancare il colore della sua pelle (Ava, come lava?).
Comunque, e questo se non è un record mondiale poco ci manca, resta il fatto che la litigiosità patologica degli italiani ha fatto anche di Calimero un motivo di divisione e di rissa (e meno male che le femministe non si sono ancora messe ad analizzare il ruolo giocato nello spot dall’Olandesina).
Tra i fan di Calimero ci sono poi i nostalgici non solo della loro infanzia ma anche di una televisione buona in antitesi alla cattiva televisione che è venuta dopo. Sul web si sprecano i commenti del tipo: «Questa è la vera tv, altro che Il Grande Fratello e L’Isola dei Famosi». Infine, tra il popolo di Calimero, va segnalata anche una minoranza psicologica, freudiana, anti-edipica, secondo la quale lo spot di Calimero conteneva un messaggio subliminale di ben altra portata riassunto nella battuta pronunciata dal pulcino: «Come è difficile farsi una mamma».
A conclusione dell’excursus socio-psico-antropologico va segnalato, per completezza di informazioni e non per dar ragione agli alfieri del politicamente corretto (che, anzi, fanno venir voglia, con la loro foga puritana, di schierarsi dalla parte dei politicamente corrotti), che Calimero (il quale pure ha sfondato in tutto il mondo) non è mai stato importato negli Stati Uniti a causa della sua neritudine.
Come tutte le persone diventate ricche e famose, Calimero si è trovato al centro di un contenzioso di carattere, per così dire, ereditario, riguardo alle sue origini. Carlo Peroni, il fumettista noto come Perogatt, che lavorò per un periodo nello studio dei Pagot, ha rivendicato a un certo punto la paternità del pulcino. Marco Pagot ha risposto agli eredi Peroni (Perogatt è morto nel 2011) facendo presente che Carlo Peroni fu assunto dalla Pagot Film nel 1963 mentre l’idea del pulcino nero fu depositata il 9 novembre 1962. Ovviamente, nonostante le precisazioni di Pagot, la questione su chi ha veramente creato Calimero è ormai uno dei cavalli di battaglia sulla rete.
Per completare la biografia del pulcino dei fratelli Pagot e di Ignazio Colnaghi (di quest’ultimo è l’invenzione fondamentale della voce del personaggio) bisogna ricordare che Calimero, per un periodo, è stato mandato al confino come un prigioniero politico. È accaduto negli Anni Settanta quando il pulcino ormai da tempo svincolato dagli spot della Mira Lanza (la multinazionale l’aveva mollato perché Calimero cannibalizzava il prodotto, cioè metteva in ombra con la sua fama mondiale la marca dei detersivi che doveva reclamizzare) fu comunque bandito dalla Rai perché secondo i dirigenti del tempo restava anche a contratto risolto un testimonial e faceva, pur senza volerlo, pubblicità occulta ai prodotti dell’Olandesina. In quel periodo il pulcino fu costretto a trasmettere le sue serie dalla Svizzera e da Capodistria, come una tv pirata, come un contrabbandiere dell’etere. Una brutta avventura accadde al pulcino in Argentina dove fu sequestrato perché la proverbiale battuta («È un’ingiustizia però!») che concludeva le sue storie suonava alle orecchie della giunta militare al potere come uno slogan sovversivo.
Ultima cosa, Calimero continua a risiedere, artisticamente parlando, a Milano ma a metà degli Anni Settanta fu ceduto a una società giapponese e, di recente, a una olandese. Il pulcino nero è diventato una multinazionale rimanendo sempre quello che è stato sin dall’inizio: il simbolo dell’uomo medio alle prese con le mille ingiustizie e soverchierie della vita. Un classico. Oggi più che mai.