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 2013  novembre 29 Venerdì calendario

SCORSESE IN AMERICA MI SENTO UN ESTRANEO, HOLLYWOOD MI STA STRETTA. RESTO IL FIGLIO DI OPERAI SICILIANI. MI AIUTANO LA MUSICA, LA MODA E DICAPRIO

SCORSESE IN AMERICA MI SENTO UN ESTRANEO, HOLLYWOOD MI STA STRETTA. RESTO IL FIGLIO DI OPERAI SICILIANI. MI AIUTANO LA MUSICA, LA MODA E DICAPRIO –

Il lancio del nano! Come poteva Martin Scorsese resistere all’idea di girare un film sulla violenza di Wall Street dove i giovani e spavaldi Padroni dell’Universo finanziario, dopo aver provato tutto ma proprio tutto si inventano per sfogare lo stress di lanciare contro un bersaglio, al posto delle freccette, un Brontolo pagato cinquemila dollari?
Certo, è una violenza volgare e incravattata diversa da quella inzuppata di sangue in Quei bravi ragazzi e altre pellicole nelle quali il regista ha raccontato il mondo dei quartieri in cui è cresciuto, dove «la paura era eretta a sistema di vita, o di sopravvivenza». Ma il punto di partenza di Jordan Belfort, lo squalo della finanza che negli Anni 80 diventò immensamente ricco («Quest’anno ho compiuto 26 anni guadagnando 49 milioni di dollari, cosa che mi fa incazzare perché con altri tre arrivavo a un milione alla settimana») con spericolate scorribande ai danni dei risparmiatori fino a conoscere la rovina e la galera, non era poi diverso da quello dei bulli spensieratamente assassini di Little Italy: fare più soldi possibile più in fretta possibile…
«Scusi, per finire il film sono andato a letto alle cinque e fra tre ore ho un volo per Los Angeles», spiega Scorsese per farsi perdonare pochi minuti di ritardo. Si è fatto la barba, ha ancora della crema sotto l’orecchio. Mostra la montagna di apparecchiature addossate a una parete della sua elegante (e molto europea) abitazione newyorkese: «Non badi al disordine. Questa è la sala da pranzo ma quando monto un film ammucchio un po’ di mobili in un’altra stanza per poter lavorare a casa. Adesso va via tutto e riportiamo il tavolo…».
Era venuto un po’ lungo, The Wolf of Wall Street, che ruota intorno al fascino galeotto di Leonardo DiCaprio. Troppe storie, quelle raccontate nell’autobiografia omonima di Belfort pubblicata in Italia da Rizzoli con il titolo Il lupo di Wall Street. Lo yacht coperto da «una quantità di legno di tek sufficiente a impegnare con pennelli e vernice un equipaggio di dodici persone, ginocchioni da mattino a sera», l’abuso di «Quaalude, cocaina, crack, fumo, Xanax, Valium, Ambien, speed, morfina», lo scimpanzé sui pattini a rotelle, le banconote buttate via come figurine in segno di disprezzo per la gente «normale», le squillo di lusso che si fanno pagare con la credit card…
Ha accettato anche per questo di girare quello spot in bianco e nero per Dolce & Gabbana con Scarlett Johansson e Matthew McConaughey in una versione lunga da YouTube, una più corta e una cortissima? Era una sfida a stringere, stringere, stringere?
«Sì, lo è. Ogni attimo deve essere essenziale. Andare al punto. Facendo negli Anni 80 uno spot per Armani ho imparato che potevo ridurre tutto al minimo senza perdere nulla. Nulla. Il film Goodfellas, in italiano Quei bravi ragazzi, deve molto a quella tecnica imparata con la pubblicità. E così The Wolf…».
Gli spot come esercizio di sintesi.
«Mi sono serviti tantissimo. Anche i soldi ricevuti per la pubblicità mi sono serviti a fare altri film. Altri lavori».
Ho letto che anche Cape Fear lo fece controvoglia solo per il vil denaro…
«Quei soldi mi servivano per restaurare vecchie pellicole altrimenti destinate a essere perdute. Messe in salvo e fornite poi alla Film Foundation».
Quindi anche lo spot Dolce & Gabbana servirà a salvare altri film del passato?
«Certamente».
Pare che ci tenga a spendersi sul lavoro quotidiano, a fare insieme l’artista e l’operaio quotidianamente al pezzo…
«Non vivo mica nell’Olimpo. La vita, giorno dopo giorno, è lavoro. È una questione di testa».
Suo padre Luciano cosa faceva?
«Lo stiratore. Stirava vestiti da donna. In una grande azienda di sfruttatori. Tanto vapore. Un caldo terribile. Niente aria condizionata. Era come se lavorasse nelle miniere. Grandi fatiche. Grandi sudate. Tornava distrutto…».
Sua madre?
«Faceva la cucitrice di tessuti».
Stessa fabbrica?
«No, un’altra. A qualche isolato di distanza. Ma sempre nel Garment District, tra la Quinta e la Nona, dove oggi c’è quello che chiamano Fashion District».
Quindi pesò su di loro il ricordo della tragedia della Triangle Shirtwaist Factory, l’incendio della fabbrica in cui morirono moltissime italiane che erano state chiuse a chiave nei reparti…
«Sì. Mia madre era nata l’anno dopo, ma ne parlava spesso. I miei nonni erano sbarcati a New York nel 1910. Erano tempi, raccontava mia mamma, in cui nelle fabbriche era affisso un cartello: “Se non vieni la domenica, non venire neanche il lunedì”».
Cioè?
«Dovevi lavorare tutti i giorni. Tutti. Chi non era disposto a lavorare sempre veniva lasciato a casa. Credo che quel disastro alla Triangle incise nella scelta di mio padre e mia madre di stare sempre dalla parte dei sindacati. Non potevano accettare quella filosofia del ricatto sul lavoro».
Anche lei, pur non rischiando il licenziamento, lavora sempre…
«A volte mi prendo delle pause. Ma non ho mai fatto vacanze. Ho cominciato con mia moglie Helen. E con mia figlia Francesca, che va per i quattordici anni. Adesso mi prendo una settimana, una settimana e mezzo di sosta. Magari per andare a trovare i parenti di mia moglie nel Maine. Ma normalmente no, non faccio vacanze. Lavoro, leggo, vado a cena dagli amici, ascolto musica… Anche se con la bambina è più difficile».
Papà suonava il mandolino, lei?
«Macché… Mio fratello suona la chitarra e anch’io avrei voluto suonare. Ma mi sentivo in qualche maniera non all’altezza. Dicevano che le mie dita erano troppo corte. Forse per questo sono sempre stato affascinato dagli strumenti a corda. Dal violino alla chitarra, dalla viola al violoncello. La passione per la musica, però, è sempre stata grande».
Si vede: ha girato film su George Harrison, Bob Dylan, i Rolling Stones e prima The last waltz con The Band…
«Quella è stata una delle esperienze più belle della mia vita. Oltre a Dylan c’erano Eric Clapton, Van Morrison, Joni Mitchell, Emmylou Harris, Neil Young, Muddy Waters... Fantastico».
Ama solo il rock o anche la classica?
«Sono cresciuto prima del rock’n’roll. La musica a casa nostra era quella che usciva dalla radio. Bill Crosby, Cole Porter, Frank Sinatra…».
A proposito, non doveva fare un film su di lui?
«È un progetto ancora in piedi. Dicevo, la musica era quella che usciva dalla radio. Il primo giradischi che fece il suo ingresso a casa nostra era un 78 giri. Il primo disco lo ricordo ancora, era di Django Reinhardt. Un chitarrista jazz francese. Il secondo me lo regalò mio zio. Era di Enrico Caruso: M’apparì tutto amor da Martha, Vesti la giubba dai Pagliacci… Poi il Capriccio italiano di Cˇiaikovskij. Stavo ad ascoltarli per ore. E poi il jazz, ma non progressivo. Mi piacevano Benny Goodman, Chet Backer… Un miscuglio di musica diversa. Non sono mai stato a mio agio nel mondo Bohemian del Greenwich Village. Non c’entro col Greenwich. Io ero e resto un figlio di operai siciliani. Profondamente siciliani».
È vero che ha perfino una collezione di santini?
«Sicuro. Ne ho tantissimi. Non posso mostrarglieli perché ho la casa sottosopra».
Una curiosità: quei vecchi ritratti di un uomo e una donna alla parete?
«Sono gli antenati di mia moglie, Helen Morris».
Certo era difficile immaginare che fossero nonni suoi, con quei vestiti eleganti…
«Lui, quello che vede sulla parete di destra, Gouverneur Morris, scrisse una parte della costituzione americana. Non la firmò, ma la grafia è la sua. Ha presente il preambolo, quello che dice “noi, il popolo degli Stati Uniti, al fine di perfezionare la nostra Unione…” Ecco, lo scrisse lui. Poi fu mandato come ambasciatore a Parigi alla corte di Luigi XVI, dove diventò amico di Maria Antonietta e annotò spunti preziosi sulla Rivoluzione francese. Dalla Francia riportò anche molto mobilio, che poi andò un po’ disperso fra i discendenti».
Insomma, ha assemblato due pezzi dell’America: la “nobiltà” di rango anglosassone e protestante e la povertà degli immigrati italiani cattolici.
«Certo, le foto dei miei nonni sono molto diverse. E così quelle di mio padre e mia madre».
Quanto ha pesato nella sua scelta di accettare l’offerta di Dolce & Gabbana il fatto che Domenico Dolce sia di Polizzi Generosa?
«Moltissimo! Siamo compaesani! Anche mio nonno Francesco Scozzese era di là». (Ride)
Come sarebbe a dire “Scozzese”?
«Sul serio. Quando i miei nonni sono arrivati a Ellis Island, nel 1910, hanno sbagliato a trascrivere il loro nome. Anche in un memoriale della Prima guerra mondiale c’è scritto “Scozzese”. Nel senso di “Scotsman”, abitante della Scozia».
Questa poi!
«A Polizzi Generosa ci sono le rovine di un antico castello dei normanni. Immagino che i miei avi fossero scesi in Sicilia con loro. Ho fatto un test del Dna. Dalla parte di mia madre sono totalmente mediterraneo, da quella di mio padre hanno trovato dei geni che sembrerebbero simili a quelli degli abitanti delle Shetland, le isole a nord della Scozia. I ricercatori sono rimasti molto sorpresi da questa scoperta».
Questa fierezza delle origini ha ancora un po’ di spazio tra i giovani italoamericani di oggi?
«Posso parlare solo per la mia esperienza. Dall’alto della mia età. (Ride). Ho tre figli. La prima, Catherine, è italo-americana. Anche se la mia prima moglie non era italiana, viveva con me, i miei genitori, conosceva i quartieri italiani… Insomma, è italo-americana… La seconda, Domenica, è americana, la terza, Francesca, è “troppo” americana. Io continuo a ricordarle che lei è per metà siciliana perché, anche se ha gli occhi azzurri ed è bionda, ha proprio il temperamento della siciliana. Ma lei è troppo americana. Troppo».
In una vecchia intervista a Gian Luigi Rondi lei disse che nonostante fosse nato e cresciuto in America e nonostante l’America le avesse regalato fama e benessere lei si sentiva «comunque “off”, un ex italiano, nato nel “ghetto italiano”. Non uno straniero, ma un “estraneo”».
«È così».
Quindi un americano alla Robert Redford, biondo, bello, occhi azzurri per lei è rimasto un extraterrestre.
«È vero. Ancora adesso è così. Non solo Redford, tutti quelli che sono fuori dalla finestra, qui in strada, per me sono degli extraterrestri. Dei marziani».
Dunque anche sua moglie, che è una vera “wasp”.
«Certamente. (Scoppia a ridere). Anche lei. Ma ho imparato a viverci, con gli extraterrestri. Ormai ci conosciamo. Abbastanza bene, direi».
Cosa resta, di questa sua “estraneità”?
«Io mi sento ancora un estraneo. Appena esco di casa lo sono. Non credo che ci si debba necessariamente amalgamare dentro una cultura. Io ho la mia. Questo è il mio Paese. Ovvio. Ci sono nato. Ma io non sono come “loro”. Anche se questo mia figlia, quella troppo americana, non lo capirà mai».
Questo sentirsi in qualche modo “fuori posto” è utile? È un’inquietudine che aiuta a vivere?
«Sì. Ho provato a far parte della società americana. Non ci sono riuscito. Non appartengo a questa società. Il modo in cui il mondo sta cambiando non è il mio… Il tipo di comunicazione… Preferisco un modo di vivere più quieto. O forse sto solo diventando vecchio. Anche se questo nuovo film, The Wolf of Wall Street, non è affatto, diciamo così, tranquillo».
Hugo Cabret invece, l’ha fatto per Francesca?
«Anche».
Per farla diventare meno americana?
«Ci ho provato. Mia moglie è cresciuta in Francia e la bambina ha qualche influenza europea. Però… In realtà la chiamo ancora bambina ma ha quattordici anni. È una farfallina pronta a volar via… Già si è messa le ali per Halloween… Mio Dio! Quanto cresce in fretta!».
Li ha visti, i suoi film?
«No. Solo L’età dell’innocenza, Kundun sulla vita del Dalai Lama, Hugo Cabret e Italianamerican».
È sempre convinto che quel documentario su suo papà e sua mamma resti il suo capolavoro?
«Sì. È la cosa migliore che io abbia mai fatto. Lì ho capito come una sola immagine di una sola persona possa raccontare una storia. Un mondo. Erano meglio degli attori, ma non erano attori».
Luciano e Caterina, però, alla fine erano diventati davvero degli attori… Con tutte le volte che li ha infilati nei suoi film…
«Erano la naturalezza pura. La spontaneità pura. Credo che Francesca abbia ereditato qualcosa».
L’ha già fatta recitare?
«Nooo. No no no no!». (Ride inorridito all’idea che faccia l’attrice).
Quale rapporto ha oggi con Hollywood?
«Diciamo “instabile”. Ti scotti sempre, a Hollywood. Ma i fondi arrivano comunque da lì. Se sei così fortunato da trovare attori e attrici che possono darti il successo, bene. Sennò… Certo, coi film che fa oggi Hollywood io non c’entro. Negli Anni 70 potevo starci, negli Anni 90 ancora, forse. Ma adesso fatico a immaginarmi a Hollywood. Per fortuna Leonardo DiCaprio ha un grande potere ai botteghini. E a Leo, grazie a Dio, piacciono i film che facciamo insieme. È un ragazzo intelligente. Molto intelligente».
Pensa sia penalizzato dal fatto di essere così bello?
«Senz’altro. Ma è molto bravo. Davvero molto. Basta vederlo in What’s eating Gilbert Grape, cioè Buon compleanno Mr. Grape. Oppure in Shutter Island… Straordinario».
Sul serio lei stesso non riusciva a dormire per gli incubi, girando quel film?
«Sì, non dormivo bene. Soprattutto verso le riprese finali. Avevo delle reazioni di panico».
Lei ha voluto nei suoi film, oltre a De Niro e DiCaprio, Liza Minnelli, Linda Fiorentino, Mary Elizabeth Mastrantonio, Joe Pesci, Michael Scala, Cesare Danova, John Turturro, Steve Buscemi, Ray Liotta… Un diluvio di italo-americani!
«Devo stare con persone che appartengono a un mondo del quale io faccio parte. E loro fanno parte di me. Mi capiscono».
Con un americano biondo come Paul Newman, però, si trovò benissimo… Forse perché apparteneva lui pure a una minoranza, quella ebraica?
«Bravo. Esattamente».
Sempre per questa idea dell’estraneità…
«È così. Italiani ed ebrei sono stati importanti, nella storia americana. Nonostante la non appartenenza…».
Anni fa lei disse che non riusciva più a rivedere la violenza di certi suoi film, come Quei bravi ragazzi…
«E poi ho fatto The Departed. Lo so».
Lei dirà che è una violenza diversa, che i morti non vengono massacrati con la mazza da baseball ma con un colpo secco di pistola… Quell’immagine di Jack Nicholson imbrattato di sangue peggio di un macellaio, però…
«Giusto. Però non si vede. È una violenza sottintesa».
Carlos E. Cortes nel libro Hollywood e gli italo-americani dice che il cinema americano è arricchito con gli indiani che urlano e gli italiani che sparano.
«È vero. Assolutamente vero».
Anni fa lei disse al New Yorker che rinnegava quella violenza di Mein Street o Quei bravi ragazzi…
«Non era la parola giusta. Non potevo “rinnegarla”. Avevo esplorato quella violenza fino in fondo. E quando esplori una cosa come quella ti consumi. Non c’è alcuna crescita spirituale, nell’esplorare la violenza. La violenza crea altra violenza. Bisogna andare oltre».
Resta però dell’idea che è dentro ognuno di noi e che lo scopo della vita è controllarla?
«Credo proprio che sia così. A Little Italy sono cresciuto dentro quelle cose lì. Non eravamo in guerra ma era come se lo fossimo. Era una violenza che vivevi giorno su giorno. Dovevi farci i conti».
E se c’era da scappare lei non poteva per colpa degli attacchi di asma…
«Mi era impossibile correre. Questo aggiungeva una violenza emozionale. Andava affrontata anche quella. L’asma adesso mi sta passando. Forse è una delle cose buone dell’invecchiare».
Crede che sua figlia ne veda di meno, di violenza?
«Anzi! I notiziari sono pieni di violenza. Se c’è lei non guardo i telegiornali. Sono più violenti certi notiziari che Quei bravi ragazzi. E lo stesso vale per Internet. Il mondo intero mi pare più violento. Infinitamente peggiore».
Per questo ha chiamato sua figlia Francesca? Perché San Francesco rappresenta la scelta di parlare perfino col lupo?
(Sorride)
Ha ancora in progetto di fare un film su di lui?
«Ci sto pensando da anni. Anni. Ho letto tantissimo. Mi piacerebbe molto. Ma dopo Francesco, giullare di Dio di Roberto Rossellini…»
…è difficile tornare sul tema.
«Molto difficile. Forse da un’altra angolazione. Chissà… Oggi ho un progetto per Hbo, la pay tv via cavo, su un altro grande della Chiesa. Indovini chi?».
Non ho idea…
«Celestino V».
Il Papa che fece la gran rinuncia?
«Lui. È una storia che si svolge in pochissimi giorni. Ed è bellissima».