Silvio Piersanti, Il Venerdì 29/11/2013, 29 novembre 2013
IL SUSHI ALL’EPOCA DELLA SUA RIPRODUCIBILITÀ IN CLORURO DI VINILE
TOKYO. Vi può capitare, passeggiando nel quartiere Kappabashi - dori , meglio conosciuto come Kitchen Town (città della cucina), in una zona relativamente centrale, di aggirarvi in una giungla di centinaia di negozi, tutti esclusivamente dedicati all’arredamento di cucine e ristoranti. Il loro più vistoso prodotto sono i piatti più succulenti della cucina giapponese, dal sushi al ramen, dal tempura al gelato di fagioli, ma anche di altre cucine tra cui l’amata italiana con apparentemente appetitosi spaghetti e pizza e molto meno accattivanti «naporitan» (spaghetti «alla napoletana», con sugo di ketchup e wurstel), piatto molto popolare tra i giovani nel Paese del sol levante. Non badate ai brontolii del vostro stomaco che ha messo in movimento tutti i succhi gastrici e non meravigliatevi se nessun stuzzicante odorino viene captato dalle vostre narici. Infatti quello che i vostri occhi e di conseguenza il vostro stomaco non possono assolutamente percepire, è che tutte quelle leccornie sono di cloruro di vinile.
Sono sampuru, dalla parola inglese samples (modello), repliche più che perfette di piatti cucinati che i ristoranti espongono in apposite vetrine all’esterno del negozio per accalappiare i passanti: un muto ma a suo modo eloquente invito a entrare e a sedersi (spesso, ahinoi, ad accoccolarsi) per gustare il piatto indicato al cameriere.
Sono l’opera di abilissimi artigiani obbligati a non meno di tre anni di praticantato per ottenere la licenza professionale di creatore di sampuru. La qualità è talmente alta che recentemente sono stati anche oggetto di un’esposizione al Victoria and Albert museum di Londra, il più grande e prestigioso al mondo per le arti applicate.
Sta diventando una moda per i turisti, giapponesi e non, acquistare un sampuru a grandezza naturale o a diverse grandezze ridotte sino al ninnolo da attaccare al telefonino. Per un pezzo life-size di massima qualità si può spendere l’equivalente di qualche centinaia di euro.
Di soldi nell’industria del sampuru ne girano parecchi. Basti pensare che in Giappone ci sono circa 500 mila ristoranti, con un record mondiale di densità: uno ogni 260 abitanti. La produzione è frenetica: c’è quella di massa, con prodotti standard preconfezionati di buon livello. E quella «su misura» che raggiunge limiti di perfezione assoluta. Il business più remunerativo è quest’ultimo. In genere, funziona così: il titolare di un ristorante telefona alla ditta prescelta. Questa invia subito una squadra composta da un cuoco esperto e un fotografo specializzato, ciascuno con il proprio assistente. Arrivano, vestiti scuro come dipendenti di un’impresa funebre, si inchinano, offrono il biglietto da visita tenendolo con entrambe le mani, si sfilano velocemente i mocassini scuri, mostrando immacolati calzerotti bianchi, estraggono dalla borsa le loro pantofole «da lavoro» e con quelle ai piedi finalmente seguono lo chef verso la cucina. Questi cuoce davanti a loro il piatto o i piatti che vuole siano riprodotti.
L’inviato-cuoco prende appunti e il fotografo scatta immagini di ogni fase dell’operazione. Al termine della cottura, il piatto viene fotografato nel posto esatto dove la replica sarà esposta, inquadrandolo da ogni possibile angolazione e sotto ogni possibile luce. Quindi piatto e relativa documentazione fotografica vengono portati nel laboratorio della ditta dove inizia il procedimento della replica che deve essere completata entro poche ore perché altrimenti i colori dell’originale si deteriorano e l’«artista» non può imitarli alla perfezione, col rischio di scontentare l’esigente cliente e dover ricominciare l’intero ciclo da capo.
Il sampuru di una singola pietanza può costare da 300 a mille euro. Per la riproduzione di un menu completo si può arrivare facilmente a 10 mila. È un settore in continua espansione: il Giappone produce milioni di sampuru per ristoranti in Cina, Corea del sud, Taiwan e altri Paesi orientali. Grazie al suo utilizzo ormai diffuso da parte delle decine di migliaia di ristoranti cinesi e giapponesi in occidente, il sampuru sta conquistando anche il nostro emisfero, vincendo la nostra istintiva diffidenza di base verso l’imitazione in generale e la plastica in particolare.
Una volta tanto non si deve scrivere che un aspetto della cultura giapponese ha radici millenarie e si perde nel tempo: il sampuru ha una precisa data di nascita ed è recente: 1932. È l’anno in cui Takizo Iwasaki realizzò la prima perfetta replica di un’omuraisu (omelette di riso) in cera, dopo essere stato macabramente ispirato dalle esatte riproduzioni in quel materiale degli organi umani osservati in una facoltà di medicina. Il successo fu immediato. I ristoranti che esponevano i «menu figurativi» videro la richiesta dei piatti offerti con l’immagine scolpita più che raddoppiati rispetto a quelli elencati in un tradizionale menu scritto. In breve tempo Iwasaki-san fu in grado di fondare la Iwasaki Be-I, che ancora oggi soddisfa oltre il 50 per cento delle richieste del settore. Il tumultuoso sviluppo tecnologico del dopoguerra fece presto a sostituire la cera con il più economico, maneggevole e duraturo vinavil di cloruro.
L’unica nicchia di resistenza all’uso dei sampuru sono i ristoranti di extra lusso, spesso ubicati nei piani alti dei più prestigiosi department store come Takishamaya, Keio, Daimaru Matsuzakaya ed altri, che vogliono distinguersi dalla massa di ristoranti tradizionali giapponesi , offrendo ai loro danarosi clienti menu e atmosfera internazionali. Ma proprio in questi giorni gran parte di questi locali è al centro di uno scandalo che sta scuotendo l’intera nazione: molti di essi hanno ammesso (con rituali inchini, richiesta di scuse e promesse di immediati rimborsi ai clienti che abbiano conservato la ricevuta del conto) di aver mentito nei loro menu, presentando piatti realizzati dai loro chef con ingredienti di massima qualità e adeguato astronomico prezzo, che in realtà erano stati preparati con materie prime mediocri.
«Se invece che nei loro menu scritti avessero presentato i piatti con le nostre repliche» ha commentato Junichi Kawasaki, un «artista di sampuru», questa truffa non sarebbe stata possibile. «Con le nostre repliche perfette non si possono ingannare i clienti. È facile confrontare il piatto che viene servito in tavola con quello esposto in vetrina. E se non corrisponde al modello nel più piccolo dettaglio o nella minima sfumatura di colore, lo si rimanda indietro. Potete star certi che lo chef verrà immediatamente a inchinarsi davanti a voi per chiedervi scusa e vi pregherà di pazientare per dargli il tempo di preparare di nuovo il piatto con maggiore attenzione». «Questa perfezione maniacale è un’arma a doppio taglio» dice Yasushi Kameda, 50enne chef di un noto ristorante di Kobe, con dieci anni di esperienza in Italia. «I sampuru sono così perfetti che per noi chef si trasformano in un incubo: lavoriamo con il terrore di non essere in grado di “replicare la replica”».
Se è permesso al vostro cronista di dare un consiglio ai turisti in Giappone, direi che, visto che sia i menu scritti sia quelli «figurativi » possono ingannare – i primi mentendo spudoratamente, i secondi promettendo una perfezione impossibile – nella scelta del ristorante più che della vista è meglio fidarsi dell’olfatto: i giapponesi non hanno ancora inventato i sampuru dei buoni odori. Ma potete scommettere che presto lo faranno.