Riccardo Staglianò, Il Venerdì 29/11/2013, 29 novembre 2013
QUELL’OSCURO WEB DEL DESIDERIO
New York. Il sesso analogico, bei tempi. Quello fatto dal vivo (generalmente) da due persone nella stessa stanza rischia di diventare l’attività residuale di inguaribili nostalgici, nuovo discrimine antropologico tra «nativi digitali» e meno giovani. Almeno a giudicare da alcune evidenze della cultura popolare. L’ultima delle quali è il film Don Jon. In breve: il protagonista Joseph Gordon- Levitt si fidanza con Scarlett Johansson, con cui sbriga amplessi come fossero formalità dal momento che l’unica cosa a eccitarlo davvero è il porno su internet. La commedia, al di là dei meriti artistici, sembra aver illuminato una tragedia internazionale. Riattizzando un dibattito su un «pericolo di dipendenza» che un’audizione parlamentare di quasi dieci anni fa aveva definito «peggiore dell’eroina» (Sam Brownback, il Giovanardi locale, aveva parlato delle «risultanze più disturbanti mai viste in Senato»). Questo prima del Big Bang dell’hard casareccio e gratuito di You- Porn e dei suoi fratelli. Prima di quella riffa di pseudo-incontri ravvicinati del terzo tipo attraverso lo schermo che è Chatroulette. E prima anche dell’epidemia di dickpicks, costate la carriera a un politico americano in ascesa, sulla cui intuibile traduzione glissiamo. Ecco, se prima di tutto ciò eravamo già sulle soglie di Sodoma, dove siamo adesso? E più specificamente: questo profluvio di sesso virtuale che effetti avrà, o sta già avendo, su quello reale?
Di certo il fenomeno è diffuso. Praticamente ubiquo. Stando a un sondaggio dell’università di East London su un campione di 16-20enni, il 97 per cento dei maschi e l’80 per cento delle femmine aveva guardato porno online. Chiedete in giro, guardatevi allo specchio, non mentite: siamo alla messa a verbale dell’ovvio. Sfuggevole invece è il limite tra aggiornamento 2.0 di ancestrali pulsioni e patologia. In The Brain That Changes Itself lo psichiatra britannico Norman Doidge raccontava di suoi pazienti che, a forza di vedere porno, hanno difficoltà a eccitarsi con partner reali. Mentre in The Big Disconnect la psicologa Catherine Steiner-Adair descrive adolescenti americani sempre più aggressivi nei confronti delle ragazze. Per una mala educación sentimentale che deriverebbe dal porno online, spesso violento, sempre misogino. Da questa saggistica compatibile con il senso comune si stacca Why Internet Porn Matters (Perché il porno su internet importa) un testo molto più teorico pubblicato dall’autorevole Stanford University Press.
La sua autrice Margret Grebowicz insegna filosofia al Goucher College di Baltimora, venera Foucault e Baudrillard e, tra tutte le cose, ha in odio soprattutto le semplificazioni. Ci incontriamo nel suo appartamento di Brooklyn perché sarebbe «disagevole parlare di zoofilia e squirting in un bar». La prima cosa che chiarisce è la natura schizofrenica del fenomeno, da una parte «totalmente privato dal momento che chiunque, comprese donne e bambini, può avervi accesso da casa propria senza più doversi preoccupare dello stigma di interagire con un edicolante o un bigliettaio» e dall’altra «impossibile da rendere davvero anonimo, nel senso che l’Fbi potrà sempre risalire a chi ha visto cosa, a differenza di quel che accadeva una volta». La novità maggiore, per lei, deriva però dall’effetto social network. «Il porno su internet funziona un po’ come Facebook» dice offrendo una bibita gassata al melograno «e noi ci rappresentiamo in maniera ossessiva, sia caricando filmati amatoriali o scegliendo dove navigare tra un’offerta infinita. Dobbiamo auto-crearci per esistere come parte di questa comunità. Ma le regole da segui re sono limitate alle categorie di visibilità, comunicabilità e trasparenza. Non c’è spazio per i silenzi, l’oscurità e la seduzione. Così il sesso viene messo in mostra sotto l’accecante sole del tardo capitalismo». Un sentimento reificato. Compatibile con il porno, quindi illustrabile con foto o video che si possono scambiare.
È possibile che questo cambiamento quantitativo, questa disponibilità illimitata e a costo zero – con il suo corollario dell’utilità marginale decrescente, per cui l’ennesimo boccone non è mai buono come il primo – non comportino cambiamenti nella vita vera? Grebowicz non lo esclude, ma per il momento non ci sono abbastanza studi per dimostrarlo. L’effetto «rivoluzionario » che concede è un altro: «Così come Google Maps cambia il modo in cui gli umani abitano lo spazio, il porno su internet cambia quello in cui abitano il sesso. La questione filosofica non è tanto “come il porno influenza il sesso reale” ma piuttosto il sesso, in generale. Nell’accezione foucaltiana di una serie di idee e pratiche, prodotte discorsivamente, relative alla gestione sociale ». Ammette a fatica che certi modelli visti sul web possano provocare un effetto emulativo in camera da letto: «Potrebbe essere il caso dello squirting, l’eiaculazione femminile. È diventato un protagonista del porno online perché a differenza di un normale orgasmo, non si può fingere. E in una cultura che predilige il mostrabile all’indimostrabile magari ora più donne vorranno imparare come arrivarci».
Anche la distinzione tra sesso analogico e digitale, reale e virtuale, con l’implicita superiorità del primo sul secondo, non la convince fino in fondo. «In Chatroulette due persone, in tempo reale, hanno approcci di natura sessuale mediati da uno schermo. Come vogliamo definirlo? E ancora: se aveste una figlia adolescente, riterreste più pericoloso che apra la camicetta davanti a uno sconosciuto di un altro Paese, o che faccia sesso con un coetaneo dello stesso quartiere? Voglio solo dire che “normale” non è un attributo che si è mai sposato bene con “sesso”».
Nemmeno «post-strutturalista» con «realtà », se è per quello, e ciò spiega l’impossibilità per questa donna terribilmente intelligente di restare con i piedi per terra. Ma forse ha ragione lei, ed è un riflesso viziosamente giornalistico quello di pretendere risposte che entrino nella griglia di un titolo. «Viviamo in un’epoca in cui la sessualità (natura/cultura; matrimoni gay; diritti dei trans) è ai primi posti di una conversazione pubblica su cosa significhi essere un essere umano. In gioco c’è la relazione tra lo Stato, una certa fantasia di democrazia (il porno amatoriale è stato raccontato come una democratizzazione sullo stile di Wikipedia, io credo che lo sia solo in apparenza) e i cittadini come esseri sessuali. Dunque la domanda vera dovrebbe essere: come il porno su internet influenza tutto ciò?». Domanda aperta e dalla risposta ovviamente più problematica di quella se la moltiplicazione del consumo online raffredderà quello offline. Internet ha la reputazione, talvolta esorbitante, di essere una specie di Terminator totale. Dopo aver ucciso gli agenti di viaggio, i cassieri delle banche e i fotografi professionali, ora sarebbe la volta del sesso. Può essere utile ricordare il commento della pornostar Nina Hartley, che non parla per sentito dire: «Guardare il porno per imparare a fare sesso è come guardare i film di Vin Diesel per imparare a guidare. Io sono pagata per fare certe performance, ma non è il tipo di sesso che faccio a casa».
Se uno se lo ricorda è salvo. E a quel punto fa sorridere la demonizzazione dell’upgrade tecnologico dell’autoerotismo. Vale sempre la vecchia massima di Woody Allen: «Non denigrate la masturbazione: è fare sesso con qualcuno che amate».