Ugo Bertone, Panorama 28/11/2013, 28 novembre 2013
DOVE VOGLIONO ARRIVARE QUELLI LIDL?
Ma che ci fa quell’Audi 6 nello spot della Lidl? Sta a vedere che il regista ha commesso un errore marchiano, un po’ come l’orologio al polso della comparsa in Scipione l’Africano, gaffe storica del cinema italiano. Niente di tutto ciò: la panzer armata Lidl, colosso europeo della grande distribuzione discount, ha deciso che è giunta l’ora di puntare dritto al portafoglio, se non al cuore, della classe media impoverita e impaurita del Bel Paese, indecisa se rinunciare al filetto o all’auto che fa ancora status. E lo fa con precisione: musica di Gianna Nannini, regia di Lucio Lucini, l’autore nazionalpopolare dei videoclip dei Pooh o di Tre metri sopra il cielo dell’ancor più nazionalpopolare Federico Moccia, e uno slogan che è più di una tentazione: «Non cambiare stile di vita, cambia supermercato». E giù un tripudio di prodotti rigorosamente made in Italy a prezzi ridotti e non poche tentazioni di marca doc e dop. Soprattutto in vista dei pranzi e cenoni di Natale e Capodanno. Benvenuti nell’impero Lidl, new look, cliente tipo del low cost, alle origini (il gruppo è in Italia dal 1992) guardato con sospetto dal consumatore medio, era la famiglia di immigrati, che faceva la spesa grossa una volta o due alla settimana, riempiendo le sporte di scatolette dai nomi improbabili. Adesso si punta sugli italiani, gente che ama andare in negozio tutti i giorni, cui bisogna saper offrire il pane fresco rispettando anche la competenza dei buongustai. Gente che ama curiosare tra le occasioni non-food: biciclette, pattini o coperte per portare il cane in macchina, tutto per una manciata di euro.
Sembra di tornare al vecchio mercatino rionale, ma senza vu’ cumprà: perché questa è la Lidl, icona dei tempi della grande austerità che sa di Germania come la meccanica di precisione, ma sui cui scaffali sette prodotti su 10 sono italiani. E, a sorpresa, oltre alle etichette di proprietà (guai a chiamarle sottomarchi) spuntano le merendine Ferrero o la pasta Barilla, buone per rassicurare le famiglie che varcano la soglia del consumo cheap. E se è vero, come è vero, che ogni epoca, dal boom economico in poi, è stata segnata dai simboli del consumo, niente serve a marcare la stagione del risparmio obbligato meglio dei templi del discount Lidl, 564 punti vendita con 9.500 dipendenti, dove 10 uova medie categoria A si comprano per 1,45 euro e un bottiglione da 1 litro e mezzo di frizzantino costa 1,99 euro. Ma per la cena di Natale, spunta lo champagne da 13 euro e 90 e un menù da meno di 10 euro, astice (congelato) e babà al rum compresi.
Nemmeno la crisi ha rallentato più di tanto la marcia italiana del gruppo. Il fatturato italiano resta, chissà perché, un segreto ben custodito. Si viene a sapere, dopo molti sforzi, che il 2013 chiuderà con una crescita (anche per effetto dei nuovi punti vendita) e, spulciando i vecchi bilanci, si scopre che nel 2011 i ricavi della Lidl Italia (negozi) hanno raggiunto 2,57 miliardi con un utile operativo di 42,5 milioni e netto di circa 21 milioni. Altri numeri spiegano meglio le intenzioni della società, guidata in Italia da Daniel Marasch (niente foto, bitte, come vuole la ditta): di qui al 2018 si faranno investimenti per 500 milioni per ammodernare vecchi e nuovi punti vendita e dotarli, ove possibile, di forni per il pane. Il 2013 si congeda con quattro nuove aperture (a Roma, Lamezia, Bresso e Padova), in linea con una tabella di marcia che prevede un nuovo store (ciascuno da 800 a 1.200 metri quadrati) ogni 15 giorni.
Il 2013, inoltre, si chiuderà con 1.000 nuove assunzioni, senza lesinare gli sforzi per formare soldati e ufficiali dell’esercito che risponde a un generale invisibile, il fondatore Dieter Schwarz. I numeri della formazione sono l’orgoglio di casa Lidl: 110 mila ore nel solo 2013, erogate ai dipendenti, in parte ad Arcole (Verona), dove è stato attrezzato anche un punto vendita in miniatura, con tanto di scaffali e postazione casse, in parte presso le direzioni regionali e a Neckarsulm, la West Point del sistema dove si sviluppa la fase finale (9 mesi, stipendio e spese a carico dell’azienda) dei corsi di studio per i diplomati e neolaureati prescelti. Ogni capoarea, un manager che gestisce quattro-sei punti vendita, con un organico che può arrivare a 70 persone, deve seguire una formazione di 8 mesi, durante i quali vengono approfonditi gli aspetti teorici (gestione del personale, diritto del lavoro, amministrazione di un punto vendita) con il tirocinio pratico, al fianco di un collega esperto.
Difficile che tanto zelo basti a cancellare le accuse sulle condizioni di lavoro in Lidl, che risuonano da anni dalla Germania al Regno Unito, ma sono negate con fermezza dalla società italiana: turni di lavoro massacranti, part time che nei fatti si prolunga di ore non retribuite. E tante altre critiche che affiorano qua e là in rete, senza nemmeno scalfire la corazza dell’ammiraglia del low cost che, al pari dell’Ikea, ha assunto in Italia un valore proverbiale. Forse più che in Germania, dove i 3.300 empori Lidl (18 miliardi di fatturato, più 2 per cento rispetto al 2011) sono superati da Aldi Nord e Aldi Sud, creature dei fratelli Albrecht, i veri inventori del modello.
Ma è la Lidl l’azienda che da Heillbron, a 50 chilometri da Stoccarda, ha esportato la versione teutonica del low cost in 22 paesi d’Europa e ne rappresenta il simbolo più evidente: un po’ per le dimensioni (48 miliardi di euro di vendite, 170 mila dipendenti), un po’ per la potenza di fuoco della comunicazione (nel settore solo la Conad investe di più), molto per il metodo e la filosofia che sta alla base di ogni mossa di un’azienda tanto potente quanto misteriosa, la prima a balzare oltre il Muro nel 1990 per far assaggiare un po’ di capitalismo ai cittadini dell’Est. Ci sono stati gli anni della Standa, icona del boom economico, quelli dell’outlet, cattedrali multicolori dell’era delle vacche grasse. Forse siamo entrati, senza nemmeno accorgercene, nell’era Lidl, dove il low cost è il risultato di una sofisticata catena di montaggio in cui nulla è lasciato al caso. Anche la pesa di frutta e verdura che si fa alla cassa, riducendo la tentazione di barare sul peso.
Un sistema a piramide, efficiente e inquietante, al cui vertice siede Dieter Schwarz, classe 1939, figlio di Joseph, che nel 1930 entrò come socio nella Lidl & Co, azienda di vendita all’ingrosso di frutti esotici, distrutta nel corso della guerra. La storia della nuova Lidl comincia nel 1973, quando Dieter decise di copiare il modello dei discount Aldi. Per 1.000 marchi, recita la leggenda, herr Dieter rilevò il marchio Lidl dall’ex socio del padre. Scelta obbligata: Schwarz-Markt (ovvero mercato nero) non era il nome ideale per mettersi in commercio. Di leggenda si deve parlare perché di Schwarz si sa davvero poco. E quel poco, per i suoi gusti, è comunque troppo. Vive a Heilbronn con la moglie Franziska, a una manciata di chilometri dalla sede centrale del gruppo. Si sposta in utilitaria, il più delle volte per visitare, in totale anonimato, un punto vendita, in Germania o fuori perché, recita il gossip, va in vacanza solo nei paesi dove opera la catena Lidl. Per evitare di essere riconosciuto non lesina precauzioni: cambia macchina tutti i giorni e non ha autista; ha declinato una medaglia al merito del land Baden Württemberg per non essere fotografato; ai convegni partecipa con badge intestati ad altri dirigenti, senza foto. Di lui, del resto, esistono solo due istantaneee, una scattata a tradimento da Focus, l’altra spuntata da un album familiare.
È senz’altro ricchissimo, la terza fortuna di Germania (subito dietro la dinastia Albrecht), attorno ai 14 miliardi di euro aveva calcolato Forbes nel 1999, prima che i legali di Schwarz intimassero alla rivista di depennare il suo nome dalle graduatorie. Una diffida che non ha ancora raggiunto l’agenzia Bloomberg, che stima in 19,3 miliardi la sua fortuna e che ha sguinzagliato i reporter del settimanale del gruppo, Business Week, per penetrare nel bunker dei segreti. Con scarso successo, perché 14 anni fa Schwarz ha ceduto la sua fortuna, ovvero la proprietà della rete Lidl (9.800 supermercati) e della più tradizionale Kaufland (oltre 1.000 supermercati tra Germania e paesi dell’Est) a una Stiftung, una sorta di fondazione con finalità benefiche che garantisce il più assoluto riserbo. Anche sullo stipendio che il board della società di gestione (ovviamente uomini suoi) gli attribuisce. Un potente invisibile, insomma, come si conviene al profeta dell’austerità.