Francesco La Licata, La Stampa 28/11/2013, 28 novembre 2013
QUEL BARONE CHE PASSÒ TUTTA LA VITA NELLA SUITE PER ORDINE DELLA MAFIA
Il Grand Hotel et des Palmes di Palermo, di cui è stata annunciata la chiusura, è stato per lunghissimi anni la location di un grande film, mai realizzato: la storia del barone Giuseppe Di Stefano, condannato da un tribunale invisibile, ma spietato, a un esilio dorato da scontare tra gli specchi, gli stucchi e i velluti barocchi del più famoso albergo della Sicilia.
Solo che la leggenda del barone ricco e poco felice non era frutto della fantasia popolare ma storia vera, fatta di carne viva e sangue. Giuseppe Di Stefano era uno degli uomini più facoltosi del Trapanese. Cresciuto a Castelvetrano in uno dei feudi della sua famiglia, un giorno nefasto provocò la morte di un ragazzo, anch’egli - a suo modo - baciato dal privilegio di appartenere a una famiglia «rispettata».
I racconti, non si sa quanto attendibili e trasmessi solo per via orale, parlano di un tragico incidente stradale, ma altri giurano che «qualcosa accadde a Castelvetrano, ma non quello che si dice». Incidente o altro, il morto ci fu e provocò pericolose reazioni.
Il papà della vittima si dice pretendesse lo stesso destino per il giovane omicida che, però, aveva difensori di un certo calibro. E allora la vicenda finì davanti al tribunale mafioso che sentenziò: «No alla pena capitale, ma se ne deve andare da Castelvetrano» per scontare una specie di carcere a vita, seppure comodo e dorato. Così il barone sbarcò a Palermo, alle Palme, e ne uscì raramente e solo previa autorizzazione.
La 204, due suites in una, diventò il luogo del proprio esilio e lì Di Stefano trascorse praticamente la sua seconda vita, molto simile alla prima ma senza libertà. Non abbandonò le abitudini antiche, il barone. Non cambiò gusti: il pesce fu sempre quello di Mazara del Vallo, il pane e l’olio di Castelvetrano, come la carne e la cacciagione.
Neanche ai piccoli capricci rinunciò. Il fattorino dell’albergo andava per mercati a cercare gli stuzzicadenti di piume d’oca, perché «non sia mai che il barone si mettesse il legno in bocca» spiegava uno dei portieri storici dell’albergo.
Eppure non era un isolato. In tanti lo ricordano al bar delle Palme in compagnia di belle signore, che fossero importanti soprano o amiche della buona società come Marta Marzotto che, con Guttuso, spessissimo «scendeva» alle Palme. Persino il buon Sciascia qualche volta si attardò al bar a sentire i discorsi del barone amante dei libri di storia e della buona musica, lirica e classica.
Ma quando stava nella propria intimità pretendeva una routine immutabile. Pranzo e cena serviti sempre dallo stesso cameriere e nelle rare assenze del suo preferito si informava sul sostituto col direttore: «Ma chistu conosce il mio verso?». Certo poteva pure accadere che qualche volta pretendesse i servigi di una cameriera privata, ma accadeva di rado.
Quando fu avanti negli anni dovette rassegnarsi alla sedia a rotelle, solo allora si isolò veramente: per pudore non gradiva di farsi vedere. Se ne stava nella sua stanza piena di piante bellissime ascoltando buona musica e leggendo i suoi libri di storia.
Non si conoscono parenti del barone Di Stefano, chi ha frequentato l’albergo ricorda la presenza discreta dei due infermieri che si davano il cambio. Così è arrivato ai 92 anni, fino alla Pasqua del 1998, quando se n’è andato nel sonno, prima di poter gustare il capretto e la cassata, menù fisso della Festa, in Sicilia.
Contrariamente ad ogni prassi alberghiera, che tende a nascondere i lutti, la bara di Di Stefano è uscita dalla porta principale, proprio sotto l’unico «balcone lungo» del prospetto stile Art Nouveau, da dove - nelle calde giornate estive - il barone osservava il passeggio pomeridiano. A salutarlo, l’intero personale e Totino Librizzi, istituzione delle Palme, il barman che gli serviva l’aperitivo quando si intratteneva con Carla Fracci, con qualche politico o col tenore Giuseppe Di Stefano, suo omonimo e buon amico.