Gianfelice Facchetti, SportWeek 23/11/2013, 23 novembre 2013
ROMA JE T’AIME
[Rudi Garcia]
A volte capita. A volte succede che in un mondo con regole che si ritengono immutabili arrivi qualcuno che queste regole le sa cambiare. Con semplicità e naturalezza. Nel calcio, nel corso degli anni, si sono creati sempre più muri, steccati, incomprensioni e loro, i protagonisti, giocatori e allenatori, si sono sempre più chiusi dentro le loro cittadelle assediate, almeno così le vedono loro. Poi invece capita che un giornalista sia a Trigoria per intervistare Miralem Pjanic 48 ore esatte prima di un big match, cioè alla vigilia della sfida contro l’Inter che lanciò la Roma verso uno splendido assolo di dieci vittorie. E capita che, in attesa di sedersi a tavolino per parlare col talento bosniaco, si venga invitati a pranzo con l’allenatore. Due chiacchiere così, in semplicità, perché conoscere gli altri fa sempre bene. Noi di SportWeek, una giornalista de L’Équipe e lui, davanti a un piatto e un bicchiere di vino. L’imprevisto invito, ovviamente molto apprezzato, è stata la porta per trovarsi davanti a una persona capace, nelle maniere e nelle parole, di rompere schemi consolidati nei rapporti tra chi fa calcio e chi lo racconta. Insieme alla forma anche la sostanza aveva parlato chiaro, l’allenatore della Roma era davvero un “alieno” per la semplicità e la schiettezza con cui era capace di dialogare.
Dopo circa un mese siamo tornati per incontrarlo tra il campo e la scrivania.
È consapevole della sua unicità nel panorama del nostro calcio?
«No, lavoro come ho sempre fatto e non penso di farlo in maniera differente dalla maggior parte dei miei colleghi. La differenza la fanno semmai la piazza e la storia, soprattutto quella recente, di questo club».
Prima di venire in Italia, le era mai capitato di assistere a una contestazione alla sua squadra nel giorno della presentazione?
«Sapevo della grande passione dei tifosi romanisti, comprendevo la delusione per la stagione passata e finita con la sconfitta nel derby ma proprio non capivo il perché degli insulti ai miei giocatori».
Per questo arrivò a dire: «Chi contesta è tifoso della Lazio»?
«La squadra andava ricostruita dal punto di vista psicologico ma, oltre a intervenire sugli effetti della contestazione, ho capito subito di dover agire sulle cause: lo scopo del calcio è prima di tutto il piacere delle persone che vanno a godersi una partita allo stadio. Tifare per una squadra dev’essere una cosa bella!».
Indubbiamente anche la Roma che ha plasmato in questi mesi è una bella realtà... È stata dura?
«Per cominciare mi bastava che la squadra mi seguisse sul progetto di gioco, ho blindato i ragazzi affinché ritrovassero fiducia e gioia di giocare sul campo. Piano piano le cose sono cambiate, le vittorie aiutano sempre ma devi cercarle».
Qual è il punto forte del suo gruppo?
«Raramente ho visto tanta coesione in uno spogliatoio, c’è grande stima e rispetto tra tutti. Penso che questo nasca dalle difficoltà superate insieme e soprattutto perché questi sono giocatori veri, non di carta, sono uomini buoni che prima di tutto pensano al collettivo. Totti, De Rossi, De Sanctis, Benatia, Maicon... Di personalità forti non ne mancano».
In questo momento nei cinque campionati maggiori d’Europa ci sono in testa tre squadre guidate da allenatori francesi. Arsène Wenger in Inghilterra, Laurent Blanc in Francia e lei in Italia. C’è un segreto?
«Ci accomuna il fatto di allenare tutti grandi club che hanno un certo potere anche economico. Per noi la sfida sarà diventare presto una grande squadra raggiungendo anche dei risultati significativi: sin qui, la Roma ha vinto troppo poco per il suo blasone».
E il fatto che in testa al nostro campionato ci sia un tecnico straniero che cosa significa?
«Ogni tanto chi arriva da fuori porta novità importanti, ma questo non toglie nulla alla “scuola italiana”, io ho solo cambiato delle cose che non condivido per la mia maniera di gestire una squadra. Un ritiro troppo lungo, per esempio, non credo sia necessario. Dopo dieci giorni si rischia di ottenere l’opposto di quello che si sta cercando».
Cosa fa, libera tutti?
«Un giocatore per stare bene a un certo punto ha bisogno anche di tornare a casa, vedere i suoi figli e pensare ad altro. Anche un allenatore deve uscire dall’ambiente di lavoro di tutti i giorni; se non ha possibilità di allargare le sue conoscenze non può crescere».
Quindi vuol dire che lei non pensa al calcio 24 ore al giorno? Altri allenatori dicono di farlo.
«Meglio che ognuno ascolti se stesso... Alla fine ha ragione chi vince le partite e le partite le vince chi le prepara bene; le prepara bene chi è davvero convinto che la sua maniera di allenare possa dare risultati da ogni punto di vista».
La sua squadra ha la miglior difesa in Europa ed è il secondo attacco in campionato, niente male no?
«Il calcio è qualcosa che ha più a che fare con l’intuito, non è certo una scienza esatta. Le statistiche a volte mascherano, non dicono tutto. Io preferisco che la mia squadra giochi bene attaccando per la maggior parte delle partite a un paio di vittorie ottenute con prestazioni così così. Per questo dopo gli ultimi due pareggi resto fiducioso».
Con la sosta per le Nazionali ha avuto un po’ di tempo libero per lei?
«Non molto per la verità, ma rispetto all’inizio della mia carriera sono cambiato; allora pensavo anch’io al calcio 24 ore su 24, adesso per trovare il mio equilibrio ho bisogno pure di altro».
Famiglia compresa?
«Certo, il tempo che trascorro con i miei cari è molto prezioso. Anche se da cinque anni non vivo più con le mie figlie, stanno con mia moglie a Parigi, sono un genitore molto protettivo. Da quando non abitiamo più insieme, la qualità del nostro tempo è migliorata. Prima davamo troppe cose per scontate...».
Tre figlie femmine. È geloso?
«Io? Macché... ho solo un bazooka in macchina». (ride, per fortuna...)
A Roma da solo non le mancheranno certo gli inviti.
«Già, anche a Lille avevo tante possibilità per scegliere tra mostre, concerti, spettacoli a teatro e altri sport da seguire».
Nella città del cinema, si sente libero di andare in una sala a vedersi un film?
«Ci vado volentieri con le giuste “precauzioni”, entro in sala per ultimo a luci spente ed esco sui titoli di coda».
Qual è l’ultimo film che ha visto?
«Gods Behaving Badly, l’ultimo film con Sharon Stone, una storia un po’ strana ma mi è piaciuta l’idea degli dèi che hanno perso potere perché la gente non crede più in loro».
Il Papa l’ha già incontrato?
«Non ancora, ma nel primo weekend libero sono andato a visitare la Cappella Sistina e ho avuto la fortuna di entrare nella “sala del pianto”, impossibile non sentire il peso di una carica così importante».
A proposito di fede, lei è credente?
«Sì, ma credo di più nell’uomo che in altro».
E prima di chiunque altro, Rudi Garcia crede nei suoi di uomini. A loro e a un ambiente che vive il calcio con passione smisurata, ha portato equilibrio. Il primo gol della “sua” Roma sotto la curva sud è stato nel derby, cancellando il ricordo della sconfitta in Coppa Italia. Ci ha messo poco tempo per decifrare la biografia di una città e di una squadra di calcio con cui è entrato subito in empatia, dove gli altri scrivevano “Roma” lui ci legge “amor”.