Mattia Feltri, La Stampa 28/11/2013, 28 novembre 2013
DOPO QUASI VENT’ANNI L’ADDIO A UN "IMPICCIO" CHIAMATO PARLAMENTO
«Questo governo è dalla parte dell’operazione di moralizzazione della vita pubblica intrapresa da valenti magistrati, dalla grande stampa e da quei settori del mondo politico e sociale…». Tutto si compie: l’esempio è perfetto, se davvero la storia ha un andamento circolare. Ieri, diciannove anni, sette mesi e undici giorni dopo quell’esordio a Palazzo Madama, l’avventura parlamentare di Silvio Berlusconi si è chiusa dov’era cominciata. Nella stessa aula. E soprattutto per mano dei valenti magistrati sulla cui opera di moralizzazione si sarebbe presto ricreduto. Era il 16 maggio del 1994. Il presidente del Consiglio, al primo di quattro incarichi, si presentò al mondo sperando di spogliarsi dell’abito di marziano. A rivederlo oggi, quel discorso, eravamo tutti dei marziani. Pensate ai senatori a vita – Gianni Agnelli, Giulio Andreotti, Francesco Cossiga, Amintore Fanfani, Giovanni Leone, Giovanni Spadolini, Paolo Emilio Taviani – e capirete che l’alba di questa storia è in pieno Novecento.
Berlusconi si produce in rassicurazioni lunari, considerate oggi: «Il governo si riconosce senza l’ombra del sia pur minimo dubbio nella base giuridica e di principio rappresentata dalla Carta costituzionale del ‘48». C’è chi teme che l’arrivo al governo dei missini preluda a una rivincita del post-fascismo sulla Repubblica nata sulla Carta democratica dalla cui compilazione la destra è stata esclusa. Berlusconi segnala che dalla fine della guerra è trascorso mezzo secolo: «Dopo la sconfitta del fascismo in Europa, la scelta della democrazia come regola vincolante e come supremo valore dell’azione liberale è l’orizzonte comune ed esplicito della maggioranza, in tutte le sue componenti». È il discorso del milione (anche milione e mezzo) di posti di lavoro. Del «liberismo disciplinato e rigoroso». Del «federalismo liberale con molte radici piantate sull’unico tronco dell’Italia unica e indivisibile» (c’è chi teme che Gianfranco Fini voglia rifondare l’Italia fascista, che teme che Umberto Bossi voglia frantumare quella repubblicana). E poi i vagiti sulla riduzione delle tasse. La deburocratizzazione. Si vuole privatizzare l’Eni. Semplificare la legislazione. «Questo discorso è un’enciclopedia», dirà Spadolini. Berlusconi precisa il «ruolo centrale e autonomo del Parlamento».
Sono proprio due decenni di vita parlamentare a dimostrare che, del Parlamento, a Berlusconi interessa nulla. È un impiccio. I suoi interventi parlamentari sono rari, quasi sempre obbligati dalla richiesta di fiducia o da considerazioni programmatiche d’avvio di legislatura. I suoi siti offrono momenti a lui più cari, il discorso della discesa in campo, quelli alle convention, sui predellini, alle adunate di piazza San Giovanni, quando non ci sono impicci istituzionali a trattenerlo. «Dovrebbero votare soltanto i capigruppo», dirà nel marzo 2009, anticipando i temi assembleari di Beppe Grillo sulla disciplina di partito come fedeltà assoluta all’elettore tramite il leader. Nel 1997, all’avvio della Bicamerale che avrebbe dovuto ricostruire l’assetto dello Stato, Berlusconi prende parola alla Camera: «Il nostro favore per il presidenzialismo non nasce dal disconoscimento delle istituzioni rappresentative, ma dalla convinzione che il Novecento si chiude con una domanda di democrazia diretta». Ecco, il Parlamento è una grana. È un sacrario della democrazia. Berlusconi è sempre in coda alle classifiche di presenza e di produttività stilate da Openpolis, anche quando è all’opposizione. Non perché batta la fiacca, non è il tipo. Ma perché non ci crede. Gli interessa il governo oppure il contatto fisico col popolo. «Il governo del popolo, attraverso il popolo, per il popolo», dice citando Abraham Lincoln la sera di dicembre in cui il suo primo esecutivo è sfiduciato. In genere, Berlusconi arriva in aula giusto se il suo voto rischia di essere decisivo, e vive il momento come il giro al bar, saluta gli amici che non lo vedono da un po’, gli si fanno attorno a capannello, lui racconta barzellette. La sera del 16 maggio ’94, dopo il discorso sulla fiducia, si precipita fuori dall’aula e chiede un televisore ai commessi: deve vedere la finale di Coppa Campioni del suo Milan contro il Barcellona. Vince il Milan 4-0 e, dopo il vantaggio, costretto a rientrare nell’emiciclo, Berlusconi riceve la prima calorosa stretta di mano da sinistra: è del pidiessino rossonero Claudio Petruccioli.
Passa un anno e le intermittenti ambizioni ecumeniche si spengono. A Lamberto Dini, premier del governo del ribaltone, dice che ha «scritto le leggi sotto la dettatura della sinistra politica e sindacale». La magistratura, che ha cominciato a fargliene vedere, è già una minaccia: «La politica giudiziaria del governo Dini ha esiti illiberali, illegittimi, fallimentari». Sta cominciando la «traversata nel deserto», i cinque anni all’opposizione di Romano Prodi, Massimo D’Alema e Giuliano Amato. È l’unico periodo in cui lo si vede con costanza in aula e in transatlantico, perché teme di perdere le truppe. «Non vi ho promesso che avremmo abbattuto i governi della sinistra. La sinistra è compatta per amore delle poltrone. Ma vi ho promesso una lunga traversata nel deserto, alla fine della quale torneremo a Palazzo Chigi», dice in una riunione dei gruppi. A quello pensa quando improvvisamente abbatte la bicamerale (maggio 1998) con un discorso che Fini ascolta incredulo e terreo: «Se la forza di decisioni già prese ci costringerà a votare questo presidenzialismo inconsistente e pericoloso, non esiteremo a dire no». E nel 2001 è di nuovo ai banchi del governo, nell’emiciclo, vincitore. E rivincita è: «Noi siamo qui per lo stesso motivo di allora: vogliamo cambiare l’Italia». E quando torna lì, nel 2005, dopo il rimpasto, ha individuato il morbo: «Mi piacerebbe concludere la mia avventura lasciando in eredità un sistema composto da due forze: la Casa dei moderati e la Casa della sinistra». Il bipartitismo. Ci sono partiti che contano il 6-7 per cento della coalizione e «se c’è un loro veto non si può andare avanti». Il rimpasto è il risultato delle liti con Fini e Casini. Tutto gli è ostile. Il Parlamento con le lentezze e le trappole. Gli alleati con i dissensi. La legislatura sta finendo coi nostri impegnati nelle guerre del dopo 11 settembre. Stavolta il tempo c’è stato ma i risultati no. Si fa largo l’insofferenza per l’Europa e la Bce in ragione della loro «politica distruttiva nei confronti delle aziende europee».
E infatti, dopo il secondo breve interregno prodiano, Berlusconi torna a Palazzo Chigi nel 2008 e sogna una legislatura costituente insieme con l’avversario di turno, Walter Veltroni: in aula riconosce l’utilità del governo ombra, sostiene che è il momento delle riforme perché si aggiornino, sveltiscano e consolidino i poteri dell’esecutivo: «Non servono nuove risse ma dialogo alla luce del sole. Il dialogo può e deve cominciare da subito». Troppo spesso, per Berlusconi, il dialogo consiste nel sentire gli altri che danno ragione a lui. Spossato dalle liti con Fini, che nel dicembre 2010 cerca vanamente di dare una nuova maggioranza al Paese, e dalla crisi economica, il gran capo comincia mostrare segni di cedimento. Sono segni fisici. Lo si vede alla Camera o al Senato, nei tanti interventi da premier cui è costretto dalle quotidiane correzioni dei conti («i mercati non valutano la nostra solidità»), sfigurato e gonfiato dagli anni e dagli interventi chirurgici. Nel passaggio cruciale del suo discorso del dicembre 2010 ribalta l’amato Erasmo da Rotterdam, facendo l’elogio dell’equilibrio contro quello della follia. La rivoluzione liberale compare come uno spettro in interventi primorepubblicani («che bella la Prima repubblica, quando in aula si recitava Guido Cavalcanti»). Così, come uno spettro, Berlusconi spunta fra i suoi, il 2 ottobre 2013, a pochi metri da dove ogni cosa ebbe inizio. Fa male al cuore – che lo si sia amato o detestato – la vista di quel vecchio che si umilia, e riconsegna la fiducia al governo Letta dopo avergliela negata fino a un’ora prima, quando sperava che i numeri fossero ancora con lui. Lì dentro non lo avremmo rivisto mai più, nemmeno per un orgoglioso e dignitoso commiato.