Cecilia Zecchinelli, Corriere della Sera 28/11/2013, 28 novembre 2013
ALLA FIERA DEL «LIFESTYLE» ISLAMICO TURISMO E MODA SECONDO ALLAH
I dopobarba senza una goccia di alcol e gli hotel con saloni per la preghiera e piscine per sole donne. I ristoranti che servono piatti in linea con i precetti religiosi, soprattutto carne macellata recitando formule rituali e sgozzando animali sani. Medicine e cosmetici che non contengono sostanze proibite, dai derivati del maiale al sangue. L’abbigliamento che coniuga la «modestia» alla moda e perfino al lusso. I media, i divertimenti, le linee aeree, migliaia di prodotti di largo consumo. Il business del halal , ovvero del lecito o senza peccato in base al Corano, è ormai enorme, diffuso in cinque continenti, in fortissima crescita. «E va ben al di là delle ali di pollo o dei kebab venduti dai fast food per poveri immigrati a cui pensano molti in Occidente. Halal è un logo globale, sta diventando ovunque un brand», spiega Jonathan Wilson, inglese convertito, direttore del Journal of Islamic Marketing . «E va oltre la finanza islamica, nata proprio qui a Dubai nel 1975 e ora riconosciuta come parte fondamentale dei mercati globali, anche perché limitando i rischi più di quella convenzionale ha performance migliori», dice Tirad Mahmoud, ceo della Abu Dhabi Islamic Bank, primo istituto del settore negli Emirati. Che aggiunge: «Un approccio unico al halal ora non c’è, ogni segmento è a parte e al suo interno non ha standard e certificazione comuni. Ma questo summit, per la prima volta, lancia una visione universale. È l’inizio di una nuova era».
Nei due giorni del Global Islamic Economy Summit tenuto nell’emirato dai mille grattacieli, che dopo la forte crisi del 2009 è tornato a correre e ora spera di aggiudicarsi l’Expo 2020, tremila persone hanno discusso e tessuto contatti frenetici. Una presenza superiore alle previsioni, con molti partecipanti arrivati da Stati Uniti e Europa. Per tutti, il rapporto degli organizzatori del vertice Thompson Reuters ha confermato che halal vorrà dire successo. Già lo dice. Qualche cifra? Nel 2012 la finanza islamica aveva asset mondiali per 1.354 miliardi di dollari, il settore cibo un fatturato di 1.088, i viaggi e il turismo di 137, i media di 151 e i farmaci e i cosmetici di 97. Per tutti, poi, le previsioni sono più che positive: nel 2018 il solo alimentare è previsto salire a 1626 miliardi ma pure il settore più piccolo, farmaci e cosmetici, balzerà a 136.
Alla base dell’espansione del halal sono i cambiamenti demografici e sociali dei fedeli all’Islam. Se ora sono un quinto della popolazione mondiale, nel 2030 saranno il 27%, maggioranza in 49 Paesi ma numerosi anche in Occidente: solo in Europa il 6% destinato a diventare l’8% della popolazione. Ma, cosa più importante, la crescita economica nelle nazioni con le più numerose popolazioni musulmane (a partire da India e Indonesia) è più elevata della media mondiale. Per Goldman Sachs, negli 11 Paesi più promettenti per il business oltre la metà degli abitanti sono musulmani. E questo significa classi medie in espansione, sempre più consumatori. «Oltre a un maggior potere d’acquisto c’è ora tra i musulmani una consapevolezza della propria identità. Le ricerche indicano che il 90% dei consumatori che seguono l’Islam acquistano tenendo conto della fede, disposti a pagare di più per comprare halal», dice Shelima Jenmohamed, vice presidente dell’agenzia pubblicitaria Ogilvy Noor, attiva in Europa e Medio Oriente. «Come è stato per gli afroamericani in Usa, dopo i brand di nicchia e locali ora anche i colossi occidentali guardano finalmente a questo mercato, capendo che non è più di serie B. Un esempio? Unilever ha sviluppato uno shampoo Sunsilk speciale per donne con l’hijab. E ha prodotto spot innovativi con calciatrici velate, altre al lavoro. Una svolta».
Senza contare i non musulmani: al summit molti hanno ricordato come in Malaysia, leader nella finanza islamica, metà dei clienti delle banche «coraniche» siano cinesi. E che per il cibo halal, in Gran Bretagna e in Usa, ci sia un boom generale dovuto alle maggiori garanzie di ingredienti organici, controllati e non derivati da «animali maltrattati» da macellazioni diverse da quella islamica. In sintesi, a Dubai è emerso da tutti grande ottimismo reso ancora più evidente dalla crisi di gran parte del mondo. E dai padroni di casa è emersa invece la chiara volontà di fare dell’emirato il «centro globale del halal», non tanto per la produzione di beni ma per certificarli e per creare quei legami, ad esempio tra finanza e industria, che ancora mancano.
Cecilia Zecchinelli