Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  novembre 27 Mercoledì calendario

«RIPORTIAMO A ROMA LA SALMA DEL RE»


Roma, novembre
Per quasi settant’anni non è successo nulla. Un giorno si è mosso qualcosa. L’impressione è che adesso si stia muovendo tutto. C’è chi vuole portare in Italia le spoglie di Vittorio Emanuele III. C’è chi vorrebbe impedirglielo. E c’è chi studia la situazione per decidere da che parte stare. Oggi ha seguito gli sviluppi della vicenda e ora è in grado di rivelare tutto in anteprima. Può raccontare nei dettagli un caso compliato e controverso. Può descrivere dubbi, entusiasmi e delusioni che la circondano. Può presentare i protagonisti che, sotto una superficie di apparente tranquillità, hanno aperto i giochi. Al momento vanno tutti coi piedi di piombo, si concentrano nella definizione di obiettivi, si informano su quelli degli altri e aspettano il momento opportuno per uscire allo scoperto. La cautela è massima. Si gioca una partita con la storia.
Come in certe mani di poker, si gioca col morto. È un cadavere eccellente e tutto ruota attorno a lui. Vittorio Emanuele III è l’uomo, che dal 1900 al 1946, si cala da sovrano in uno dei periodi più tormentati della storia. E 46 anni, con due guerre mondiali di mezzo, sono tanti. Troppi per rimanere immacolato. Per non fissarsi nella memoria nazionale con un’immagine fortemente contrastata. Con luci e ombre. rinnovatore che ai primi ‘900 fa parlare di «monarchia socialista», il Re soldato che nel 1918 guida l’Italia vittoriosa sul Piave, è lo stesso che vent’anni dopo mette la firma sulle leggi razziali e nel 1943, dopo l’armistizio dell’8 settembre, fugge a Brindisi e lascia Roma in balia dei tedeschi. Le ultime ombre hanno avuto la meglio sulle prime luci. Il 9 maggio 1946 Vittorio Emanuele III abdica a favore del figlio Umberto e si ritira in esilio ad Alessandria d’Egitto. Muore il 28 dicembre 1947, tre giorni prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana. Re Faruk d’Egitto gli tributa i funerali di Staco e gli da sepoltura ad Alessandria nella chiesa di Santa Caterina.
C’È CHI COPRE L’ONERE FINANZIARIO
Sembrava un capitolo chiuso. E invece si è riaperto proprio da lì, in terra d’Egitto, da un altare laterale e da una sepoltura fredda e disadorna. E il 21 agosto 2013 e Ugo d’Atri, presidente delle Guardie d’Onore incaricate di vegliare sulle tombe dei reali sepolti al Pantheon, scrive al presidente del Consiglio Enrico Letta. «In questi giorni in Egitto», premette d’Atri, «fra i tanti episodi di violenza, sono avvenuti frequenti attacchi a chiese cristiane e si può legittimamente ritenere che proseguiranno. Prego pertanto di esaminare la possibilità di un urgente intervento del governo italiano per la traslazione in Italia della salma del re Vittorio Emanuele III attualmente sepolto nella chiesa di santa Caterina ad Alessandria d’Egitto». D’Atri chiude con un dettaglio che di questi tempi lascia il segno: «L’istituto che presiedo è disponibile a coprire l’onere finanziario dell’operazione». Oggi ha scoperto come. Ma lo vedremo più avanti.
Al momento è più urgente seguire il cammino della lettera. Che arriva regolarmente a palazzo Chigi e instradata al suo destinatario. Poi non se ne sa più nulla. Il suo passaggio attraverso il Palazzo avviene nel silenzio più totale. Commenti zero. Reazioni meno di zero. «Letta l’avrà letta?», è un gioco di parole che rimane senza risposta. E se anche l’avesse letta cosa ne avrà fatto? L’avrà cestinata o vorrà approfondirne il contenuto?
«Fare i bravi», taglia corto un senatore della maggioranza, «Letta ha altro a cui pensare che fare il tomb raider in Egitto». In effetti l’agenda del governo non ne fa cenno, ma ci sono ambienti politici in cui la questione è all’ordine del giorno. «Il tema interessa anche molti parlamentari di fede repubblicana», commenta Davide Colombo, segretario nazionale dell’Unione Monarchica: «Al di là del giudizio storico sono in gioco valori istituzionali. Vittorio Emanuele III è staro capo dello Stato italiano per quasi mezzo secolo. Non possiamo permettere che la sua sepoltura sia a rischio di atti vandalici. Sarebbe un vilipendio alla nostra storia, alla nostra immagine di Paese. Andiamo e portiamolo a casa. Non c’è nulla che lo impedisca».
LE RESPONSABILITÀ DELLA SHOAH
È vero. Anche la XIII disposizione transitoria della Costituzione, che fino al 2002 ha vietato «agli ex re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi l’ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale», è stata sempre riferita ai vivi, non ai de- funti. Perché allora ci si pone il problema solo adesso? E perché a livello politico o istituzionale nessuno se ne fa carico? «Il problema», spiega in forma anonima un onorevole, abbassando il tono di voce, «è 1’atteggiamento della comunità ebraica. Le leggi razziali sono state la premessa all’onore della Shoah. Vittorio Emanuele le ha firmate: ovvio, il suo rientro non può essere un evento indolore. E qui, dopo il caso Priebke, nessuno se la sente di riaprire ferite e polemiche». Tutti ne parlano, ma nessuno ha ancora contattato la comunità ebraica. Rispondendo alle domande di Oggi, il presidente delle comunità italiane, Renzo Gattegna, prende tempo. Non si esprime sul rientro della salma. Si limita a ribadire il giudizio espresso nel settembre scorso a Trieste, la stessa città dove Mussolini, 75 anni prima, aveva annunciato l’entrata in vigore delle leggi. «Razziste e non razziali», precisa Gattegna: «Neanche nel segreto dell’urna, alcun deputato ebbe la forza, il coraggio e la dignità per opporsi a provvedimenti tanto aberranti. Ma come biasimare i depurati se lo stesso capo dello Stato, il re Vittorio Emanuele III, infangò e distrusse il prestigio morale della sua dinastia apponendo la firma al famigerato regio decreto numero 1390 dopo essersi ritirato nella tenuta di San Rossore, con indifferenza, forse con noncuranza, e cinismo, contribuendo così all’immane tragedia che seguì?».
Più che un giudizio sembra un macigno. Ma per quanto ingombrante, secondo i monarchici non può frapporsi a bloccare il percorso che da Alessandria d’Egitto porta in Italia. Porrebbe scoraggiare un intervento delle istituzioni, ma i discendenti di Casa Savoia avrebbero tutto il diritto di portare l’operazione a termine.
Il giudizio del presidente della comunità ebraica porrebbe però intervenire a condizionare i passaggi successivi. «Portiamolo a casa», ha auspicato il segretario dell’Unione Monarchica. Già, ma quale casa? Ugo d’Atri, nella lettera a Letta, non lo ha precisato. Ma nella sede delle Guardie d’onore, tra foto, dipinti, labari e bandiere di casa Savoia, la questione non si pone nemmeno: «La sepoltura», dice d’Atri, «non può che essere al Pantheon, accanto a Vittorio Emanuele II e Umberto I». E qui potrebbe nascere la grana. Tumulare il Re Soldato nella gloria dell’antico tempio di epoca romana avrebbe il sapore di una celebrazione. Molti la prenderebbero male, e anche al di fuori delle comunità ebraiche è facile immaginare un’ampia area di dissenso politico e civile.
«UN PROTAGONISTA DELLA STORIA»
«Far le cose di nascosto non avrebbe senso», riprende d’Atri, «parliamo di un uomo che nel bene e nel male è stato un grande protagonista della storia d’Italia. La sepoltura al Pantheon non è una celebrazione. Le colpe non si cancellano. Ma nemmeno si può andare avanti con la damnatio memoriae. Vittorio Emanuele III ha firmato le leggi razziali. Siamo tutti d’accordo. Ma lo ha fatto dopo averle respinte per ben tre volte e dopo che il Parlamento le aveva votate praticamente all’unanimità, con otto contrari e 1’approvazione di alcuni parlamentari israeliti. Il re era isolato. Mussolini disse di Vittorio Emanuele che era uno dei 20 mila smidollati che avevano a cuore la sorte degli ebrei. Si lamentava del “nanerottolo” che non gli lasciava mano libera. Se non abbiamo avuto gli eccessi della Germania nazista lo dobbiamo a un potere che ha lenito gli slanci autoritari del fascismo. La storia la scrivono i vincitori e la monarchia ha perso. Ma sono passati quasi 70 anni. Riportare Vittorio Emanuele al Pantheon è un’occasione per tutti. È l’Italia che ripensa la sua storia. Che chiude i conti col passato e può guardare avanti. Se non lo facciamo oggi significa che non siamo ancora maturi per farlo. Un giorno lo dovremo fare».
Rimangono gli altri conti. Quelli della traslazione. Le guardie d’onore dicono che è tutto a carico loro. Ma come? Fonti vicine ad ambienti monarchici, parlano di un conto corrente, creato a suo tempo da Umberto II, provvisto di tondi (più di 100 mila euro) per il rimpatrio e le esequie dei Savoia morti all’estero. È un’indiscrezione. E la partita è solo all’inizio.