Cristina Manfredi, Vanity Fair 27/11/2013, 27 novembre 2013
HO VINTO IL GIOCO DELL’OCA
L’armadio di Remo Ruffini me l’ero sempre immaginato come una sequenza infinita di piumini. Lui è il «signor Moncler», l’italiano che nel 2003 si è comprato il marchio francese, epico per gli amanti della montagna anni ’50 e ’60, troppo giusto per i Paninari anni ’80, ma sonnacchioso all’epoca dell’acquisto. Chissà che cos’hanno pensato a Grenoble quando si sono visti arrivare questo comasco di aspetto pacato e idee sfacciate. Lì le giacche imbottite le facevano quasi uguali dal 1954, quando l’alpinista Lionel Terray intuì le potenzialità degli strani indumenti che portavano gli operai dell’allora fabbrica di sacchi a pelo, fondata due anni prima dal suo amico René Ramillon.
Ruffini diventa il proprietario e tutto cambia: la giacca da alta quota si trasforma in una divisa metropolitana, si veste di lana, scopre il sangallo, sfodera le ruches. Quello che era nato per contrastare il gelo delle vette ora lo indossano le signore molto chic e i businessmen di tutto il mondo. Gli stessi che adesso tengono d’occhio le news finanziarie, perché Moncler ha appena ottenuto l’autorizzazione a quotarsi in Borsa, dopo il tentativo del giugno 2011, non concretizzato causa crac dell’economia mondiale. Può quindi partire l’Ipo, l’offerta iniziale pubblica dei titoli di chi si quota per la prima volta.
Uno che è partito da meno di 50 milioni di euro, per arrivare a fatturarne 489 lo scorso anno, ti immagini che abbia l’ossessione della piuma d’oca, insomma non te l’aspetti che i suoi piumini si contino sulle dita di una mano. E che porti nel cuore quello regalato dalla mamma quando era ragazzino.
Dieci anni fa non poteva immaginare la quotazione dell’azienda. Da Grenoble a Piazza Affari, come ci si arriva?
«Avevo grandi aspettative quando ho iniziato, certo non potevo prevedere questi sviluppi. Volevo creare una giacca per tutti, capire che cosa potevo fare per cambiare un prodotto che aveva potenzialità enormi, ma era rimasto indietro per anni».
Il tutto facendo i conti con i francesi: di solito non sono teneri con gli italiani...
«I primi tempi sono stati duri. Arrivi e glielo leggi in faccia che cosa pensano di te, che non capisci niente perché tu di piumini non ne hai mai fatti in vita tua. A Grenoble difendevano la loro struttura, la tradizione, facevano maniche larghe 40 centimetri e guai a dire che si poteva fare altro. In più quella era una fabbrica dove intere famiglie si erano avvicendate e, se provavo a cambiare qualcosa, c’era sempre qualcuno che mi diceva che no, non era possibile, suo padre aveva sempre fatto così».
Come ha impresso una svolta radicale?
«Bisogna convincere e non imporre il proprio pensiero. Se ti convinco con un risultato concreto è per la vita o, per lo meno, per il medio periodo. Se ti costringo, la sera stessa avrai già dimenticato quello che volevo da te. Questa regola, per me, funziona sempre nella vita».
Ma nella sua vita quanto c’entravano i piumini prima di Moncler?
«Non molto: io ho sempre caldo e, anche oggi, ne uso non più di cinque o sei, sempre con l’esterno in lana. Non dimentico, però, la mia prima giacca di piuma. Era il 1975, mia madre mi regalò il motorino e insieme un Moncler di un azzurro molto forte, che solo dopo ho scoperto rappresentare buona parte della produzione dell’epoca. Lo mettevo tutte le mattine per andare a scuola quando partivo da casa alle 7 e venti con un freddo tremendo. Abitavamo fuori Como e io arrivavo in classe con le orecchie e la testa gelate, ma con il busto bello al caldo. Lo usavo anche prima e dopo lo sci, ancora oggi una mia grande passione».
Ha il tempo di andare in montagna?
«Faccio una vita adeguata al mio pensiero, non sto in ufficio 20 ore al giorno e mi ricavo dei momenti liberi. Difficilmente lavoro il weekend. Durante la settimana sono molto impegnato ma poi stacco, anche perché è impossibile essere lucidi quando si è troppo stanchi».
Perché una Ipo adesso?
«Per aumentare la nostra visibilità agli occhi dei consumatori. Non abbiamo cercato lo sbarco in Borsa per fare un aumento di capitale. C’erano esigenze di equilibrio tra i vari soci, unite alla voglia di comunicare a chi magari non segue la moda. Questa è una scelta che convince il pubblico, garantisce più trasparenza, consentendo a noi di attrarre personale valido e di coltivare chi è già in squadra. Penso a Ferragamo, Cucinelli e Prada: tutti e tre i marchi, facendo lo stesso passo, hanno ottenuto successo commerciale e di qualità nei confronti del cliente».
C’è qualcuno a cui vuole dire grazie se oggi è in questa posizione?
«Al designer giapponese Junya Watanabe. Abbiamo collaborato in passato ed è stato lui a farmi scoprire come usare i tessuti di lana sulle giacche. Noi le abbiamo rese performanti ma, senza quella intuizione, nel baretto dove vado sempre a prendere il caffè a Milano, dietro via Mercato, non ci sarebbero tutti quei bancari col piumino».