Marco De Martino, Vanity Fair 27/11/2013, 27 novembre 2013
LA MIA RICETTA DI ECONOMIA? PIU’ DEL TARTUFO PUO’ IL GELATO
Aula 272 nella Aldrich Hall, una palazzina nel campus della Harvard Business School, dove nei corridoi senti gli studenti del master in Business Administration rifiutare al cellulare offerte di lavoro che arrivano prima ancora della fine dei corsi. Nel campus dall’altra parte del fiume Charles, pochi anni fa Mark Zuckerberg inventava Facebook, ma oggi in classe si discute di un modello di business diverso, nato nelle sale del ristorante D’O di Davide Oldani, il primo chef a tenere una lezione a Harvard parlando non di cibo ma di economia.
Prima di entrare in classe gli studenti hanno letto uno studio di 24 pagine in cui Gary Pisano, professore all’università, analizza assieme agli altri tre autori ogni aspetto dell’organizzazione del ristorante di Cornaredo, poco fuori Milano: ci sono tabelle sulla percentuale di rifiuti prodotti da ogni ingrediente usato nelle cucine e comparazioni dei costi e dei ricavi dei ristoranti a una stella Michelin come il D’O, dove la materia prima costa un terzo rispetto ai concorrenti, grazie alla decisione di abolire dal menu aragosta, caviale e gli altri ingredienti classici della cucina stellata.
«Quello che ci ha incuriosito è la strategia economica alla base di quella che Davide chiama la cucina POP, ovvero la capacità di offrire alta cucina a prezzi accessibili», spiega Gary Pisano, che oggi ospita una delle due lezioni. «Oltre a essere un grande cuoco, Oldani è un astuto designer di sistemi organizzativi». In classe, lo chef ascolta a fianco della sua fidanzata Evelina Rolandi e del suo amico Andrea Parolini, che lo hanno accompagnato fino a Boston, le analisi finanziarie degli studenti che si stupiscono delle scelte eterodosse dello chef.
Una ragazza fa notare che non è solo la scelta di ingredienti semplici e stagionali a permettergli di tenere i costi bassi, ma anche la sicurezza del tutto esaurito: il ristorante ha una lista d’attesa di cinque mesi per avere un tavolo. Un altro si chiede se i bassi costi fissi permettano più innovazione. Poi Oldani prende la parola e dice semplicemente: «La mia ricetta per avere successo è non guardare al guadagno: prima lavori, e poi se sei bravo arriveranno i soldi». E immediatamente tra i futuri ceo scoppia una risata fragorosa, seguita alla fine del discorso da un lungo applauso.
«Essere invitato a fare una lezione qui è una soddisfazione fantastica: oggi è valsa la pena vivere», mi dice Oldani dopo la lezione, a cui non ho potuto assistere perché l’ingresso nelle classi non è permesso ai giornalisti. «Harvard ha capito che il mio modello economico può essere applicato anche ad altre aziende in altri settori».
Che cosa l’ha stupita delle domande?
«Essendo studenti del master di Economia molti avevano un approccio quantitativo: partivano sempre dai numeri. Io invece ho spiegato che nel mio caso ho iniziato dalla economia applicata per arrivare alla teoria. È solo dopo avere sviluppato la mia idea rischiando in prima persona che posso verificare se la mia intuizione era giusta».
Mi fa un esempio pratico?
«Dieci anni fa, quando ho aperto il ristorante, facevo la cipolla caramellata con sopra scaglie di tartufo nero. Ma non mi tornava, né dal punto di vista dei conti, che erano salatissimi, né dal punto di vista del sapore. Allora ho cercato un’alternativa che fosse allo stesso tempo più economica e più gustosa, e sono arrivato a mettere sulla cipolla il gelato al grana padano. Un successo».
Conosceva l’America?
«Da quando avevo 23 anni e lavoravo con Gualtiero Marchesi, uno dei miei maestri: allora lui aveva una consulenza allo Spanish Bay Club a Pebble Beach, un grande resort in California, e io ci ho passato lunghi periodi di lavoro. Scendevo in macchina lungo la costa fino a Big Sur, ho giocato a golf con Jack Nicklaus, andavo al largo a vedere le balene. Ho anche fatto surf un paio di volte, poi mi hanno detto che in acqua c’erano gli squali e ho smesso. Ho tanti amici chef a Los Angeles, New York: è un Paese che mi piace molto, e che è vitalissimo nella gastronomia».
È vero che alla base del suo modello economico c’è il desiderio di incontrare più gente possibile?
«Sì, alla cucina POP sono arrivato anche perché penso che aprendo le porte a tutti moltiplichi i tuoi contatti e le occasioni di business. Ma mi sono anche adattato alla realtà, invece di impormi a essa, ed è per questo che al centro della mia cucina ci sono la stagionalità degli ingredienti e il contatto col territorio. Per noi etica è anche pagare velocemente i produttori selezionati con cui lavoriamo».
Ma perché la percentuale di scarti prodotti nella lavorazione degli ingredienti è importante?
«L’ha vista lei la tassa sui rifiuti?».
Lo studio di Harvard si occupa a lungo del suo metodo di selezione del personale.
«Sì, e in classe il professore ha detto che non ha mai visto un’impresa che riesce a conservare così a lungo i suoi lavoratori: in dieci anni se ne sono andati solo tre, ed erano uscite concordate verso luoghi di lavoro prestigiosi».
Come fa?
«Prima di assumere qualcuno facciamo diversi colloqui, compreso quello con i genitori del candidato, che incontra non solo me ma anche tutte le persone del mio staff: vogliamo che abbia letto tutti i miei libri, e che prima di decidere sia ben convinto. Il processo dura un anno circa, perché dopo l’offerta diciamo al candidato di andare a fare più esperienza altrove prima di tornare. È un rischio, ma anche una garanzia: alla fine si forma un patto di sangue. Non a caso alla festa per i dieci anni del D’O c’erano anche quelli che ci hanno lasciato: uno di loro veniva da Parigi, dove fa il sous-chef da Ducasse».
Non la abbandonano anche per le condizioni di lavoro: quanto ci perde a cominciare la giornata di lavoro alle 9 invece che alle 6 di mattina, e a chiudere il ristorante a mezzanotte?
«In realtà ci guadagno, perché tutti sono felici, motivati e lavorano meglio: questo è un mestiere durissimo, non solo mentalmente ma anche fisicamente, e io sento fortissima la responsabilità di alleggerirlo almeno per chi mi sta accanto».
È dura essere un celebrity chef?
«Tutti i miei colleghi che lo sono, e con cui dialogo, le risponderanno la stessa cosa: è massacrante. Ogni tanto c’è un riconoscimento, una copertina, una soddisfazione come quella di oggi, ma per il resto è fatica. Ovviamente è anche bello, ma come dice Ligabue: non bisogna prenderla né poco né troppo sul serio».
Il futuro della cucina è quello indicato da lei?
«Ognuno ha la sua strada. Ma io credo che il futuro della cucina italiana sia creare una community di cuochi che si confrontano tra loro nel rispetto reciproco, con un approccio etico al territorio e ai produttori. Noi artigiani possiamo fare a meno della grande industria, ma la grande industria non può fare a meno della creatività di noi piccoli artigiani».
Lo studio di Harvard si conclude con il suo dilemma sul futuro e la sua idea di fare un locale con prezzi ancora più accessibili chiamato POP D’O: che cosa farà?
«Abbiamo comprato un locale a Cornaredo, ma non sappiamo ancora cosa farne. Alcuni studenti erano a favore dell’idea del POP D’O, altri pensavano a una tappa intermedia con D’O in una grande città. Ho ricevuto offerte anche per aprire a New York».
E alla fine che cosa farà?
«Ne devo ancora parlare con i ragazzi che lavorano con me. Essere uniti su una decisione come questa è fondamentale: prima di tutto devo ascoltare loro».