Alberto Crespi, L’Unità 27/11/2013, 27 novembre 2013
IL SOGNO SOVIETICO DEGLI ITALIANI «IL TRENO VA A MOSCA», UNA PARABOLA DEL COMUNISMO NEGLI ANNI 50
«LENIN, LA TUA DOTTRINA SI DIFFONDE E VOLA / LENIN, LA TUA PAROLA È QUELLA CHE CONSOLA / IL DOLCE SOGNO SANTO / DELLA GRAN CITTÀ DEL SOLE / CHE HA VAGHEGGIATO OGNI CUORE / TU REALIZZASTI QUAGGIÙ / LENIN, IL PIÙ GRAN DONO DEL MONDO SEI TU...».
Questi versi potrebbero sembrarvi semplicemente ridicoli, ma ora dovete fare una cosa, dovete collaborare alla «lettura» di questo articolo mettendoci del vostro: dovete intonarli sull’aria di Mamma, la famosa canzone di Beniamino Gigli. «Lenin, la tua dottrina si diffonde e vola» deve suonare come «Mamma, solo per te la mia canzone vola», e via a seguire. Entrerete in un vortice edipico-comunista (Lenin come la mamma?! Ma andiamo!!!) che vi travolgerà. La canzone Lenin e Stalin non è il frutto di una fantasia nostalgico-dadaista del XXI secolo. È esistita davvero, è conservata nell’archivio dell’Istituto De Martino ed è uscita sul disco Sventolerai lassù. Antologia della canzone comunista in Italia uscito nel 1977 per i Dischi del Sole. La canta Agostino Vibbia, i versi sulla musica, appunto, di Mamma furono scritti da Raffaele Offidani, in arte «Spartacus Picenus». La si ascolta nel film Il treno va a Mosca, secondo titolo italiano in concorso a Torino che ieri ci ha riportato ai tempi del vecchio Pci e della «grande Unione Sovietica», come la chiamavano negli anni ’50. I versi su Stalin, nel film, non si sentono. Leggete questo pezzo fino in fondo e li troverete.
Il treno va a Mosca è diretto da Federico Ferrone e Michele Manzolini, due giovani film-makers già autori di Merica e Il nemico interno. Il nuovo film è qualcosa più di un documentario. Tecnicamente è un film di montaggio: i due ragazzi hanno messo le mani su alcuni straordinari filmati d’epoca conservati nell’archivio di film «familiari» Home Movies. A queste immagini, bellissime ma informi, hanno dato una forma narrativa con il decisivo contributo della montatrice Sara Fgaier (la stessa di La bocca del lupo di Pietro Marcello). Il risultato è un film che racconta una storia e, insieme, una parabola: quella del comunismo italiano, forza decisiva nella ricostruzione del Paese dopo la guerra, capace di cementare milioni di persone e di dar loro un’identità collettiva... nel nome di un’utopia che era meravigliosa nella sua astrattezza, ma si incarnava in un esperimento sociale che di meraviglioso aveva ben poco: l’Unione Sovietica.
Il treno va a Mosca è la storia del Sogno Sovietico che molti comunisti italiani hanno coltivato, dandogli una potenza che in certi momenti, e per certe persone, ha sfidato quella del Sogno Americano. Per poi sentirsi dire, dopo il ’56 e dopo il ’68 e dopo tante altre cose, che quel sogno era un incubo.
Il protagonista del film, ripreso anche nella sua quotidianità di oggi, è Sauro Ravaglia, un compagno di Alfonsine, provincia di Ravenna. I filmati utilizzati da Ferrone e Manzolini sono girati da lui, da Enzo Pasi e da Luigi Pattuelli (questi ultimi, deceduti) che nel 1957 furono membri della delegazione italiana al Festival della Gioventù di Mosca. Erano tutti comunisti ferventi, come si poteva esserlo allora in quell’angolo di Romagna (Alfonsine è una località mitica, uno di quei posti dove alle elezioni il Pci superava l’80%). Nel ’57 erano giovani, pieni di vita, ancora segnati da un passato recente di guerra e di privazioni. Non erano mai usciti dalla Romagna. Già Venezia, prima tappa del treno per l’Urss, sembrava un luogo esotico. Figurarsi Mosca! Grazie alle loro riprese amatoriali, in bianco e nero e talvolta a colori, lo spettatore di oggi ha la sensazione di vedere la capitale russa per la prima volta.
Le riprese della manifestazione inaugurale allo Stadio Lenin, con il discorso d’apertura di Vorosilov che allora era presidente del Soviet Supremo, hanno un grande valore storico. Ma Ravaglia, Pasi, Pattuelli e tutti i loro compagni non si limitano a filmare gli incontri ufficiali. Parlicchiando due parole di russo, se ne vanno in giro per Mosca da soli e riprendono di tutto. Ravaglia abborda una ballerina georgiana («Mo’ era di un bello, veh!», dice fuori campo, con la sua voce di arzillo ottantenne) e grazie a lei riprende le prove di uno spettacolo del Bolscioj. Vedono anche cose che non avrebbero dovuto vedere: qualche «komunalka» (gli appartamenti collettivi), qualche baracca di periferia dove gli uomini dormono per terra e la mattina vengono portati al lavoro stipati sui camion. È, si diceva, il 1957: c’è stato il XX congresso (febbraio ’56), c’è stata l’Ungheria (ottobre-novembre ‘56), la destalinizzazione è in corso ma le direttive del Pci ai compagni in trasferta in Urss sono all’insegna dell’ortodossia.
Prima di partire, i tre giovanotti si sentono chiedere dagli amici di portare delle foto di Stalin, «perché in Italia non se ne trovano più». A Mosca una statua del dittatore è ancora in piedi, non le buttarono giù tutte in un giorno... I compagni italiani vedono un paese che brama l’apertura, che accoglie i giovani stranieri con slancio e curiosità (e del resto, lo dicono gli studi demografici, nove mesi dopo il Festival, Mosca ebbe un boom di nascite ...), ma sembrano ignorare ciò che è successo nel ’56. Nessuno, nel film, ne parla. «È una cesura che per noi oggi è un dato storico ci dicono i registi ma che per Ravaglia e per i suoi compagni sembrava non esserci stata. Loro vivevano dentro un’utopia della quale sono ancora oggi orgogliosi. Il trauma fu al ritorno, quando cominciarono a portare i loro ‘filmini’ in giro per le sezioni e i capi del Pci romagnolo fecero loro sapere che, insomma, alcune cose era meglio non mostrarle... Del resto, ancora nel ’57, le uniche fonti di informazioni erano l’Unità e le radio in lingua italiana dei paesi dell’Est, come Radio Praga. Il mito sovietico venne smantellato solo molti anni dopo».
Eppure, con tutte le amarezze che sarebbero arrivate, Il treno va a Mosca è emozionante e commovente. «Perché racconta un mondo aggiungono i registi dove comunque molte persone credevano nel cambiamento. Oggi non c’è più nessuna utopia. L’impegno politico è diventato quasi una brutta parola». Era un mondo in cui, nella seconda strofa di Lenin e Stalin, si poteva cantare: «Stalin, su Stalingrado la leggenda vola / Stalin, fermava il mostro la tua forza sola / Gloria sia a te in eterno / Senza la tua grande vittoria / ritorna indietro la storia / di due millenni e anche più / Stalin, il degno erede del gran Lenin sei tu / Due vostri pari, sopra la terra non verranno mai più». Ma anche un mondo dove il comunismo italiano lottava per i diritti e per la solidarietà. Il treno va a Mosca racconta una Russia che non c’è mai stata e un’Italia che non c’è più.