Tonia Mastrobuoni, La Stampa 27/11/2013, 27 novembre 2013
VLADIMIR NON È PIÙ LO ZAR DELL’ENERGIA
Accompagnato dal chiasso mediatico suscitato dai modi ostentati da zar, Vladimir Putin ha goduto di un privilegio enorme, durante la sua visita ufficiale in Italia. È stato descritto come un vincente, un uomo venuto dal freddo per conquistare nuove fette di industria e di finanza italiana a suon di petrorubli. Peccato che nei sette anni di assenza da qui, l’immagine del presidente russo sia invecchiata con lui. E insieme ad essa, quella della Russia come di una superpotenza dotata di un terribile grimaldello geopolitico, soprattutto per l’Europa e il suo sottosuolo arido: la supremazia degli idrocarburi.
In realtà, quel grimaldello rischia di diventare poco più di un fuscello, se la rivoluzione dello «shale gas» in atto negli Stati Uniti, e che si potrebbe allargare alla Cina, dovesse mantenere le promesse. Non si tratta, ovviamente, di mettere in discussione il potenziale energetico russo, letteralmente sconfinato. Ma di capire che il baricentro delle politiche energetiche si è spostato altrove e che l’offerta si è diversificata, rispetto a qualche anno fa. Soprattutto, che la Russia è il Paese dei Bric che sta rallentando di più, dall’inizio della crisi, e che ha maggiormente bisogno di differenziare, rispetto al settore assolutamente predominante della sua economia, quello dell’energia.
Il presidente non dovrebbe dunque essere percepito, come sette anni fa, come uno zar dell’energia che detta condizioni e cerca sbocchi nel cosiddetto «downstream», bensì come un politico che ha bisogno di conferme, che deve convincere il suo cliente principale, il Vecchio Continente, e uno dei Paesi con cui ha sempre avuto rapporti privilegiati, l’Italia, che è meglio comprare gli idrocarburi da lui, e che bisogna andare avanti con la costruzione del Southstream. Che, insieme al Northstream, è il gasdotto che dovrebbe garantire nei prossimi decenni un raddoppio delle forniture di gas verso l’Europa. E, con esso, cementare la garanzia della capacità di influenza di Mosca nel Vecchio Continente.
Il 2013 che si sta concludendo è stato invece l’anno del sorpasso, l’anno in cui gli Stati Uniti hanno superato la Russia, sia in produzione di petrolio, sia in gas, secondo i dati del Dipartimento per l’energia. Un primato storico che conferma le previsioni fatte da eserciti di analisti trattati inizialmente come dei pazzi visionari: affinando enormemente le tecnologie di estrazione, in cui loro sono maestri e i russi ultimi della classe, gli Stati Uniti hanno inaugurato quella che l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) ha definito nel 2011 la nuova «età dell’oro del gas».
Nel Paese di Obama, il cosiddetto «shale boom» ha regalato anzitutto una prospettiva fondamentale alla prima potenza del mondo: quella di essere indipendente dall’estero entro il 2020 – con evidenti riflessi anche sulla politica estera. E intanto l’estrazione di gas scisto ha creato posti di lavoro, ha rivitalizzato una fetta importante di industria e ha raffreddato le bollette. Gli americani, poi, hanno anche talmente migliorato le metodologie di estrazione del petrolio con investimenti massicci in tecnologie all’avanguardia, soprattutto negli ultimi dieci anni, che negli Stati Uniti si parla anche di «oil revival».
In Europa, in realtà, non solo la Polonia o l’Ucraina nascondono notevoli giacimenti di shale gas, ma anche la Francia e altri Paesi: il problema è che le tecniche estrattive sono anche inquinanti e complesse, e alcuni rinunciano in partenza. Quello che conta, tuttavia, è che le possibilità di attingere a fonti energetiche si stiano moltiplicando, a Est e ad Ovest, grazie a una rivoluzione tecnologica che gli americani stanno sfruttando appieno, e che ha rivitalizzato un settore che sembrava defunto, quello degli idrocarburi. Ma come disse un leggendario ministro del petrolio saudita, Zaki Yamani, negli Anni 80, «l’età della pietra non è finita perché sono finite le pietre». E’ la tecnologia, che fa miracoli.