Fernando Ferroni, TuttoScienze, La Stampa 27/11/2013, 27 novembre 2013
SAPETE QUANTE VITE HANNO SALVATO I FISICI DELLE PARTICELLE?
Chi ha provato a raccontare la scoperta del bosone di Higgs lo sa. Sa che a un certo punto, al di là di quanto siano brillanti le sue spiegazioni, l’ interlocutore gli rivolgerà la domanda fatidica: ma a cosa ci serve?
E’ una domanda legittima da parte di chi contribuisce con i soldi pubblici a finanziare lo sforzo di conoscenza degli scienziati e delle grandi imprese scientifiche internazionali, come quella dell’acceleratore Lhc del Cern, che ci ha portato alla scoperta del bosone. E’ una domanda a cui è doveroso rispondere, tanto più che la ricerca fondamentale, oltre che alla curiosità inesauribile degli scienziati, serve alla società, eccome.
E’ un po’ sospetto, però, quando domande dello stesso tenore sono poste dai ricercatori di altri campi, più legati alle cosiddette «applicazioni» della conoscenza. Ci si chiede se i fondi dati alla ricerca del bosone non sarebbero stati spesi meglio altrove, per studiare, ad esempio, i cambiamenti climatici o l’erosione della biodiversità o qualche altra seria emergenza che attanaglia il pianeta.
E si finge così di non sapere, o peggio si ignora, che la conoscenza scientifica non procede in modo lineare e che, per quanto le risorse siano necessarie, non bastano da sole a garantire un avanzamento delle conoscenze e dei risultati in un determinato campo.
Si dà per scontato, poi, che le conoscenze e le capacità tecnologiche raggiunte da una parte non influenzino i progressi di altri settori, come se questi seguissero strade parallele e non comunicanti. E’ vero piuttosto il contrario e gli esempi non mancano. Per restare al caso della fisica si pensi alla rivoluzione per la scienza, e poi per la società e l’economia, rappresentata dal Web. Lo strumento software, che ha reso possibile questa rivoluzione, nacque 25 anni fa proprio al Cern dall’esigenza dei fisici di trasmettere e comunicare in modo più efficiente dati e informazioni. E qualcosa di analogo sta accadendo di nuovo, se è vero che la rete di calcolo parallelo Grid, immaginata per distribuire e analizzare i dati di Lhc, è già usata anche per simulare l’effetto di nuovi farmaci, studiare i cambiamenti climatici o le fluttuazioni dei mercati. E’ cioè uno strumento potentissimo per fronteggiare emergenze e problemi che si ritengono prioritari. Lo avremmo oggi a disposizione se non avessimo investito nella ricerca del bosone?
Ma l’esempio eclatante di travaso di conoscenze e tecnologie è quello che avviene da oltre un secolo tra la fisica nucleare e la medicina. Quasi tutte le tecniche avanzate di diagnosi, con cui ogni giorno negli ospedali monitoriamo il corpo umano - dai raggi X alla risonanza magnetica, dalla Pet alla Tac - sono nate prima e per altri scopi nei laboratori di fisica.
Passando dalla diagnosi alla cura, nel mondo ci sono oggi circa 25 mila piccoli acceleratori lineari per bombardare i tumori: messi tutti assieme, questi cugini minori di Lhc raggiungono la lunghezza del gigante del Cern. In Italia, a Pavia, l’acceleratore del Cnao (il Centro Nazionale di Adroterapia Oncologica) è 100 volte più piccolo di Lhc e utilizza i protoni e gli ioni pesanti, per tentare di curare quel 3% di tumori che non sappiamo trattare diversamente. Se ci fossimo posti unicamente l’obiettivo di curare il cancro, non saremmo mai arrivati nemmeno a concepire una terapia del genere. Sarebbe stata semplicemente impensabile, poiché non si sarebbero formati gli uomini, le conoscenze e le innovazioni tecnologiche che ci hanno permesso di immaginarla prima ancora che di realizzarla.
Questo naturalmente non riguarda la sola fisica, lo stesso si potrebbe dire per l’esplorazione dello spazio o il sequenziamento del genoma. La verità è che il modello della «Big Science», innescato dalle grandi domande della scienza, funziona tremendamente bene per far avanzare le conoscenze in tutti i settori, al punto da cancellare il confine - se mai vi è stato - tra ricerca fondamentale e applicazioni. I fisici delle particelle hanno cominciato ad organizzarsi con questo modello più di 50 anni fa e oggi l’Europa ha capito quanto sia vincente per la ricerca.
Si ispira, ad esempio, a questa idea lo Human Brain Project, che cercherà di ricostruire in laboratorio la complessità del cervello ed è stato finanziato con 1 miliardo dal programma Fet (Future and Emerging Technologies) dell’Ue: ça va sans dire che queste sfide si possono affrontare solo con collaborazioni internazionali che superano qualche volta anche i confini dei blocchi continentali normalmente in competizione (Stati Uniti, Europa, Cina).
Né è difficile immaginare che imprese simili creano un indotto economico significativo, qualificano dal punto di vista dell’innovazione e della tecnologia le aziende coinvolte, promuovono il merito. E l’Italia, protagonista dei grandi progetti di fisica, ma non solo, ne ha giustamente giovato. L’ha spiegato Luciano Maiani su «Internazionale» in risposta alle perplessità dell’ecologo Ferdinando Boero. Capire cos’è il bosone è complicato, molto meno, però, accorgersi di quanto sia utile averlo cercato.