Stefano Bucci, Corriere della Sera 27/11/2013, 27 novembre 2013
ODIO I PALAZZI SOLO DA FOTOGRAFARE
Anche il Caccia, alla vigilia dei suoi cento anni, non ha nessuna voglia di rinunciare alle sue grandi passioni: proprio come continua a fare Gillo Dorfles con il kitsch e le sue giacche dal taglio perfetto (mai comunque blu); proprio come faceva Niemeyer con la sua Brasilia e la sua colonia pour homme di Chanel. Per Luigi Caccia Dominioni ci sono così la facciata giallo scuro del suo palazzo di Corso Monforte 9, la sua poltrona Catilina («Il nome? Mi sono ispirato a Cicerone»), la sua maniglia San Babila, il suo tennis, il suo golf e i suoi amati maglioni di cachemire color rosa arancio. E, soprattutto, c’è la sua Milano: una connessione più che logica per lui che è nato il 7 dicembre 1913, proprio nel giorno del patrono e della classica prima della Scala, che vive e lavora in un palazzo di famiglia affacciato su Sant’Ambrogio, che da sempre è l’architetto della ricca e colta borghesia meneghina. Come altrettanto praticamente inevitabile era che il Politecnico gli conferisse (venerdì prossimo 29 novembre) una medaglia d’oro in occasione della cerimonia per il 150esimo anniversario della fondazione e per l’inaugurazione dell’anno accademico 2013-2014.
Eppure di tutte queste celebrazioni, a lui, al Caccia (cugino di quel Paolo Caccia Dominioni architetto, artista, illustratore, scrittore ed eroe di El Alamein che viene celebrato fino al 6 dicembre con ben sei mostre tra Gorizia, Trieste e il Friuli) sembra interessare davvero poco. Molto più interessante spiegare, con il tono burbero e il tipico understatement di buona famiglia, quello che sta progettando: un albergo in Liguria, una casa nel verde vicino a Milano, in mezzo a tante altre da lui stesso disegnate («spesso mi succede di ridisegnare le mie piante perché le esigenze delle famiglia cambiano e così mi ritrovo a cercare nuove soluzioni»). E ancora: «Mi è stato appena chiesto di intervenire su un progetto di Gio Ponti, non ho ancora deciso, se lo farò lo farò con mano leggera». Le capita spesso? «Sì, come spesso mi succede siano gli stessi colleghi che vengono a chiedermi un parere sui loro progetti». Nessuna gelosia professionale? «No, anche perché bastano piccole modifiche per cambiare in modo rilevante il risultato finale».
Una scala a chiocciola, pochi gradini da scendere e dallo storico studio affacciato su Sant’Ambrogio eccoci al cospetto del Caccia, un viso pieno di rughe ma uno sguardo assai vispo, sempre presente e molto determinato di fronte alle domande che non gli piacciono (regolarmente liquidate con un secco no oppure con uno sbrigativo «va be’, va be’»), non smette mai di guardare la sua basilica («bellissima, un capolavoro, anche se questi lavori sembrano non finire mai e non credo fossero poi così necessari»), nonostante continui a disegnare, nonostante continui a riempire di schizzi i suoi fogli. D’altra parte tutto qui parla dell’architetto (che da casa scende regolarmente a lavorare tutti i giorni verso le cinque), i tavoli affollati come i plastici dei suoi progetti per Milano e dintorni: il raccordo tra l’abside di San Fedele di Pellegrino Tibaldi (1569) e la Chase Manhattan Bank dei BBPR (1958-1969) realizzato tra il 1968 e il 1970; il quartiere Milano San Felice (con Vico Magistretti, 1967-1975); il palazzo di Corso Monforte (1963-1964); la Biblioteca Vanoni di Morbegno (1965-1966). «A quale architettura sono più affezionato? A tutte e a nessuna, forse agli uffici della Loro & Parisini di via Savona (1957, ndr), anche se il Comune non li ha abbastanza tutelati, un peccato».
Lo stile Caccia? «Non lo chiamerei uno stile — spiega determinato — piuttosto un modo di fare, qualcosa che si inserisce di volta in volta nell’ambiente, usando materiali che siano sempre vicini alle caratteristiche del luogo. Un modo di fare che deve tenere conto della famiglia e delle sue esigenze, dell’esterno come dell’interno. Le mie case sono fatte di ambienti di rappresentanza molto ampi e spazi di servizio più concentrati, anche perché così chi ci vive riesce a muoversi di più. Ecco, questa può forse essere una mia formula tipica». Come è cambiata la sua professione? «Si è trasformata con l’introduzione dell’informatica. Ma anche nel numero di persone che fanno parte degli studi: i nostri erano composti al massimo di una decina tra disegnatori e architetti, una sorta di bottega, di professionisti e artigiani che lavoravano assieme. Anche se poi l’unico responsabile restava il titolare, lui doveva seguire il minimo dettaglio».
La lampada Monachella (1953), la poltrona Catilina (1958), il mobile bar Scala (1972), la poltrona Toro (1973), il tavolo Alzabile (1981): Luigi Caccia Dominioni ha firmato alcuni dei simboli dell’Italian style. Quale la ricetta di questo stile italiano? «Tutto nasce dalla collaborazione tra architetto e designer, tra artigiano e produttore. E io ho sempre avuto un ottimo rapporto con i miei artigiani. Naturalmente il modello nasceva e nasce ancora da una mia idea, dai miei schizzi e disegni. Però ho sempre voluto coinvolgere l’artigiano, lasciando spazio alla sua creatività, anche perché così il mio modello finisce per essere realizzato nel migliore dei modi. A me piaceva poi moltissimo anche inventare i nomi dei miei oggetti e anche quei nomi, per me, sono altrettanti piccoli frammenti di stile italiano».
Cosa pensa il Caccia di Milano e dei milanesi? «Milano e una città che ha mantenuto una dimensione umana, l’ho sempre amata anche perché ho avuto la fortuna di vivere di fronte a Sant’Ambrogio. Ma Milano è bella anche perché ha saputo mantenere una vita quasi di quartiere, cosa molto rara al nostro tempo. E i suoi abitanti sono speciali, hanno tantissime doti magari ben nascoste, l’ho sperimentato durante la ricostruzione dopo la guerra. Soprattutto mi piace questa voglia di fare dei milanesi, anche se negli ultimi anni in architettura si è costruito forse davvero troppo, ma questa sarà sempre la stessa voglia di fare che ci aiuterà, ci sta già aiutando, a uscire dal difficilissimo momento di crisi». L’Expo 2015? «Mi auguro con tutti il cuore che Milano sappia mettere a buon frutto questa occasione, creando infrastrutture che una volta terminato l’evento mondiale aiutino a risolvere i problemi di tutti i giorni di una città oramai multietnica e multiculturale».
Alla fine della conversazione, il Caccia ricorda con piacere, ma senza tanti rimpianti, i suoi maestri, soprattutto quelli del Politecnico: Gaetano Moretti, Piero Portaluppi, Ambrogio Annoni e Arturo Danusso di Scienza delle costruzioni («un esame che per noi presentava una certa difficoltà»). E poi i colleghi: «Eravamo una bella squadra molto affiatata, che lavorava con grande rispetto e stima reciproca. Albini, Banfi, Belgiojoso, Peressutti, Rogers, i tre Castiglioni, Cattaneo, Gardella, Magistretti, Mangiarotti, Morassutti, Zanuso e io eravamo una bella squadra di calcio, con tanto di riserve, molto legati ma credo anche molto bravi». Fuori Milano? «Carlo Scarpa davanti a tutti, un grandissimo». Tutte queste archistar? «Pensano all’architettura come a un monumento per loro stessi, la loro è una architettura solo da fotografare, io invece ho sempre e solo pensato a fare un’architettura da vivere».
Impossibile per Luigi (il Gigi) Caccia Dominioni sfuggire alla trappola dei consigli per un giovane architetto: «Uno schizzo tutti i giorni, o quasi, durante gli anni dell’università».
E come consiglio di vita, ricordarsi sempre che il lavoro del progettista non è che un servizio: consiste nel trovare prima di tutto la soluzione giusta che faccia vivere al meglio il committente e la sua famiglia, che si tratti di un incarico per una villa, un quartiere o un monolocale. E ancora: non dimenticarsi che è più facile progettare un grattacielo che una bella sedia». Parola del Caccia.