Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  novembre 26 Martedì calendario

“QUEL COMPLEANNO DI JOHN JOHN IL GIORNO DEL FUNERALE DEL PADRE”


[Clint Hill]

È un’immagine entrata nella storia, suo malgrado. Quella foto di Clint Hill, l’agente del Secret Service che saltò sulla limousine del presidente Kennedy durante gli spari mortali di Lee Harvey Oswald, è diventata l’icona triste di un’epoca: «Da allora - ci dice - convivo col senso di colpa. Sono tornato a Dallas, sono salito sulla finestra da dove partirono i colpi, e penso di aver fatto il mio dovere. Ma questo non cambia la realtà: il mio compito era proteggere il presidente, e ho fallito». La commozione bagna spesso gli occhi di Clint, che oggi ha 82 anni, quando ricorda i giorni dell’omicidio. Lo incontriamo al Cafe Milano di Washington, dove il proprietario Franco Nuschese lo ha invitato a presentare il suo libro «Five Days in November». Sull’inchiesta ripete la propria verità: «Ero sulla macchina, ho sentito arrivare il colpo mortale. Ci fu un solo killer, Oswald». L’angoscia che ancora lo tormenta, però, è quella umana: «Io ero addetto alla sicurezza della First Lady, e in quella posizione ero sempre molto vicino alla famiglia. Quando nacque John John il presidente non c’era, perché viaggiava, ma io stavo là. In quegli anni vedevo Caroline e il piccolo più dei miei due figli».
Andò con Jacqueline anche a Ravello, nel 1962?
«Certo. Per accompagnarla Gianni Agnelli fece costruire apposta due auto, che sono ancora laggiù, e la ospitava sempre sul suo yacht. So cosa si racconta, ma tra loro c’era solo una magnifica amicizia: nulla di più».
Come cominciò il viaggio a Dallas?
«La mattina della partenza il presidente mi aveva detto che avrebbe fatto salire John sull’elicottero che lo portava alla base di Andrews, perché il piccolo amava volare. Jacqueline pensava che da grande avrebbe fatto il pilota. Quando però John aveva capito che il padre non lo avrebbe portato con sè a Dallas, era scoppiato a piangere a dirotto. Per consolarlo, il presidente gli aveva promesso che lui e la mamma sarebbero tornati in tempo per il suo compleanno, lunedì 25 novembre, e avrebbero celebrato insieme con una grande festa alla Casa Bianca. Fu l’ultima cosa che si dissero, padre e figlio».
John John rivide il padre al funerale, dove commosse il mondo.
«Il famoso saluto alla bara lo aveva suggerito Jacqueline al figlio. L’11 novembre la First Lady ci aveva chiesto di insegnare a John il saluto militare, perché doveva accompagnare il padre ad una cerimonia ad Arlington. Lui però non riusciva a farlo: salutava sempre con la mano sinistra. Il giorno del funerale, siccome durante la comunione John era diventato un po’ irrequieto, la mamma ci chiese di portarlo fuori dalla chiesa. Per distrarlo, ricominciammo ad insegnargli il saluto, ma lui continuava a farlo con la mano sinistra. Allora intervenne un colonnello dei Marines là presente: “No John, figliolo, sbagli tutto. Il saluto si fa così”. E glielo mostrò. John lo imitò e tornò fiero dalla mamma, che gli disse di farlo al papà. Così lui salutò militarmente il presidente ucciso».
C’è un altro particolare, però, che pochi conoscono.
«Il giorno del funerale era anche il terzo compleanno di John. Partendo per Dallas il papà gli aveva promesso la festa, e quindi Jacqueline mantenne la parola. Dopo la sepoltura i bambini della famiglia andarono nella sala da pranzo della Casa Bianca per il party di John, che fu felicissimo».
Non aveva capito cosa fosse accaduto?
«Caroline sì, perché aveva sei anni. Era sempre triste, si era resa conto. John invece ogni tanto chiedeva dove fosse il padre, ma poi tirava avanti. Io però dopo l’omicidio rimasi con la famiglia oltre un anno, e vidi con grande tristezza il momento in cui lui dimostrò di aver capito. Un giorno lo portammo a giocare in un parco, ma notammo un fotografo che cercava di riprenderlo. Allora andammo a fermarlo, e il piccolo ci seguì. A quel punto, mentre noi agenti parlavano col paparazzo, John intervenne e gli chiese: “Ma perché continuate a fotografarmi? Non lo sapete? Mio padre è morto”. Lo guardai col groppo alla gola, e pensai che era colpa mia. Non smetterò mai di pensarlo».