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 2013  novembre 26 Martedì calendario

RENZO PIANO – “COSÌ HO PORTATO CARAVAGGIO IN TEXAS”


«Nessuno ha mai messo un Caravaggio su un muro di cemento». Renzo Piano osserva I bari, capolavoro del maestro italiano e annuisce soddisfatto. Siamo nel nuovo padiglione del Kimbell Art Museum di Fort Worth - ultima opera dell’architetto genovese - che da domani verrà aperto (ingresso libero) al pubblico e che Repubblica ha potuto visitare in anteprima. Un building che porta il suo nome («non è male vederselo scolpito sulla pietra»), straordinario mix di vetro, legno e cemento armato – giochi di luce e di silenzi - che ospita una collezione altrettanto straordinaria: Tiziano, Tintoretto, Canaletto, Michelangelo, Bernini, Mantegna, El Greco, Goya, Rubens, Poussin, De la Tour ed altri. Costruito di fronte al padiglione originale di Louis Kahn, quasi a simboleggiare un passaggio di consegne tra l’architettura degli anni Settanta e quella del nuovo secolo, quarto museo che Piano ha disegnato in Texas dopo la Menil Collection e la Cy Twombly (a Houston) e il Nasher Scuplture Center di Dallas.
«Io e il Texas? Qui mi sento quasi a casa. Una storia iniziata trent’anni fa, in una terra di confine che si apre all’America Centrale, al Messico. Per me il Texas è la grande prateria, grandi cieli generosi, una bellissima luce. Qui ho conosciuto Octavio Paz, uomo, scrittore e amico straordinario, qui veniva Rossellini, che frequentava la casa di Dominique de Menil, donna di origine alsaziana che teneva insieme poeti, cineasti, grandi pensatori, architetti in nome dell’arte».
In Europa Texas è spesso sinonimo di armi e pena di morte.
«È una terra strana, politicamente disattenta, repubblicana e per molti aspetti conservatrice, terra delle grandi famiglie del petrolio, il Far West. Però loro, qui - la famiglia Kimbell è l’ultimo esempio - hanno capito che la bellezza era l’arte di costruire dei desideri, l’arte di costruire la speranza. La bellezza, lungi dall’essere una dimensione romantica, quando è colta nella sua essenza profonda è una delle poche emozioni che possono competere – lascio da parte l’amore, che è particolare – con le grandi emozioni che spingono il mondo: la gloria, il potere, la ricchezza».
In che modo compete?
«La bellezza attraverso l’arte - che sia l’arte dello scrivere, la musica, la pittura – è un’emozione fortissima perché ha a che fare con il profondo dell’essere, con i desideri. L’arte e la bellezza rendono le persone più curiose, più articolate. Gli edifici della cultura, come ad esempio i musei, rendono le città migliori, sono dei piccoli miracoli. L’arte cambia il mondo, anche se lo fa a piccolissimi passi. Lo voglio sottolineare, perché mentre in questo paese – gli Stati Uniti e in particolare il Texas - la bellezza la si coglie a sprazzi, sprazzi che sono presi come ancore di salvezza cui ci si aggrappa, per noi in Italia la bellezza è così straordinariamente diffusa che è diventata assuefazione, la gente la vive con distrazione, senza accorgersene ».
Una grande ricchezza anche per l’economia?
«Certo. La bellezza è il nostro più grande asset. È chiaro che l’Italia dovrebbe investire nella bellezza, invece lasciamo da parte questo capitale, lo trascuriamo, lo viviamo con poco entusiasmo. Il nostro paesaggio è bello perché antropizzato. Provate ad immaginare un Mediterraneo senza Italia. Noi siamo messi lì tra le civiltà nordiche, quelle arabe e spagnole, non potevamo che essere una culla di civiltà. In questo senso il mare nostrum è quello che definisco un “consommé di cultura”. Noi abbiamo un dovere di riconoscenza verso il nostro passato».
Cosa consiglia ai giovani?
«Noi italiani portiamo un messaggio umanistico, le città le abbiamo quasi inventate. I giovani devono fare esperienza all’estero, il provincialismo uccide. È importante stare lontani, osservare l’Italia da altri punti di vista. Questo vale per gli architetti, come per gli scrittori o i pittori».
Un invito a fuggire?
«Assolutamente no. Allontanarsi per un po’ serve a uscire dall’apatia, dall’assuefazione al bello. I giovani italiani devono capire che fortuna hanno avuto a nascere nel nostro paese. Parlavo tempo fa con il presidente Napolitano della vecchia tradizione italiana al cosmopo-litismo: ricercatori, scienziati, architetti, maestri e mastri comacini. Ne faccio parte anche io, che non sono un genovese di scoglio, come diceva Calvino, di quelli che restano attaccati come una patella, ma sono dell’altra metà. Quelli che si muovono, i cosmopoliti appunto ».
Lei è adesso senatore a vita. Cosa vuole e può fare?
«Con Claudio Abbado, che è un mio caro amico, ci siamo domandati subito: ora cosa dobbiamo fare? Il suo grande tema, ovviamente, sarà l’insegnamento della musica nelle scuole, Carlo Rubbia – altro vecchio amico - punta ad evitare la fuga dei cervelli, io l’unica cosa che posso fare è lavorare sulla bellezza del nostro paese ma soprattutto sulla sua fragilità, non solo geofisica o sismica. C’è la fragilità delle scuole, degli ospedali, delle carceri. Ecco il mio progetto è avere sei giovani che lavorano ogni anno su questi temi. Uno vorremmo che fosse proprio un carcerato».
Nel nuovo padiglione ci sono molti spazi dedicati agli studenti, ai bambini, all’istruzione.
«Orientation and education, queste sono le due parole-chiavi. In questo modo, venendo qui, i bambini crescono in modo diverso, perché quello che vivranno qui resterà per sempre. Quando parlavo di piccoli miracoli intendevo questo, l’arte cambia le persone, una alla volta, ma le cambia».