Gemma Gaetani, Libero 26/11/2013, 26 novembre 2013
LA TRUFFA DI MADOFF VISTA CON GLI OCCHI DEL FIGLIO SUICIDA
L’11 dicembre 2010 lo scrittore Massimiliano Governi (già autore dei notevoli Il calciatore, L’uomo che brucia, Parassiti e Chi scrive muore) legge del suicidio di Mark, il figlio maggiore di quel Bernard Madoff che l’11 dicembre 2008 fu arrestato, e poi condannato a 150 anni di prigione, per aver colossalmente truffato i clienti della sua Bernard Madoff Investment Securities applicando il noto schema Ponzi. Fu una frode dall’impatto devastante, enormemente maggiore del nostro crac Parmalat. Governi cerca informazioni su Google. Tra le altre, trova una foto del 46enne morto, ancora impiccato a un guinzaglio per cani legato a una conduttura del soffitto. Il viso cadaverico, gonfio, un rivolo di sangue seccato sotto il naso. È una visione durissima. Poco dopo, l’immagine, probabile scatto delle indagini finito in quei condotti che trasportano il privato dei vip sul web, senza alcuna mediazione di stampo morale, per fortuna non c’è più. Ma Governi pensa a quel volto senza più afflato. A quel guinzaglio come all’oggetto, simbolico e strumentale, di un inesorabile legame tra padre e figlio che si è fatto estremo gesto di espiazione delle colpe del primo da parte del secondo.
Mark Madoff, infatti, si è ucciso esattamente due anni dopo l’arresto del padre. Fu egli stesso, col fratello Andrew, a denunciarlo poche ore dopo che li aveva informati dell’implosione della società dicendo: «È solo una grande bugia e non è rimasto niente». Mark, diversamente dal padre, non regge a due anni di insulti, lettere e telefonate di odio da parte di mezza America. Fa suoi i commenti, nei forum, che inneggiano alla morte per tutta la famiglia. Dà ragione a coloro che Governi chiama «i maniaci della vendetta», insoddisfatti della condanna giudiziaria inferta a Bernie Madoff. Si appropria della responsabilità paterna, del quale è stato anch’egli vittima, e si fa martire autosacrificale perché non siano solo i truffati a soffrire. È tragedia, non in senso teatrale, pura.
Come fu per Truman Capote con A sangue freddo, mosso dalla compassione umana che si fa letteratura perché la letteratura si faccia scandaglio e memoria, Governi ha dedicato Come vivevano i felici (Giunti, pp. 144, euro 10) a Mark Madoff e alla sua drammatica vicenda. «Io fisso il soffitto e il soffitto fissa me», così comincia il libro dalla scrittura perfetta di cui Mark è protagonista narrante, strutturato in forma di abile alternanza di flashback dal montaggio (e dallo sguardo) filmico. Mescolando fatti della vera storia con un’ambientazione italiana, Governi ricostruisce l’epopea pluridecennale di una famiglia dall’apparenza felice, diventata ricchissima disonestamente, che infine paga con la sua rovina economica e strutturale, antropomorfizzando il motto «anche i ricchi piangono» per la gioia di molti di quelli che ricchi non sono. Il crollo dell’impero madoffiano è metafora del tracollo interno del nucleo familiare e dei suoi cardini genitoriali come rete di protezione, oltre che del capitalismo più squalesco. Romanzo-requiem, necessario da scrivere e da leggere, altissimo, toccante. Incredibilmente, un recensore di un noto mensile femminile ha rifiutato di scriverne perché «molto bello, ma troppo disperato per le nostre lettrici». Tuttavia, se la disperazione di Mark Madoff può insegnarci qualcosa, e può farlo grazie alla voce che Governi gli ha dato post mortem, è che, come scrisse Arthur Koestler, «la verità è ciò che è utile al genere umano, la menzogna ciò che gli è dannoso».