Ugo Bertone, Libero 26/11/2013, 26 novembre 2013
TUTTI GLI AFFARI CHE CI PORTA LA PACE CON
L’IRAN –
Caso vuole che proprio ieri, all’indomani dell’accordo sul nucleare iraniano, la D’Amico International Shipping abbia annunciato d’aver affittato a una importante società petrolifera, per un periodo di tre anni, una nuova nave alla tariffa giornaliera di circa 17.000 dollari, ovvero oltre diciotto milioni di dollari. Certo, affari del genere non si combinano dall’oggi al domani. Ma, d’altro canto, non è certo da ieri che gli uomini d’affari di mezzo mondo si stanno muovendo per conquistare la pole position per il dopo embargo del greggio iraniano, per quello che potrebbe essere l’affare dell’anno.
Fin da subito, perché anche sotto il regime provvisorio previsto dalle intese di Ginevra, Teheran potrebbe almeno raddoppiare le vendite di greggio ai Paesi che già operano con l’Iran degli ayatollah: India, Corea, Taiwan e Giappone. Questo perché le compagnie di assicurazione che finora si rifiutavano di assicurare le navi che transitavano dai porti della repubblica iraniana, già stanno riaprendo le filiali dei broker nel pressi di Hormuz. E poi il greggio «pesante » che sgorga dagli altipiani della Persiaun petrolio «sour», come il russo Ural e alcuni greggi iracheni è l’ideale per rifornire le raffinerie dell’Occidente, orfane dei rifornimenti libici. Per questo le Big Oil, Eni compresa, hanno letto con molta attenzione l’intervista al Financial Times di Mehdi Hossein, consigliere del ministro del Petrolio iraniano Bijan Zanganeh: Teheran, ha detto, ha bisogno di investimenti per almeno 100 miliardi di dollari per sfruttare il petrolio in maniera efficiente, e per questo sta studiando nuove e più attraenti forme contrattuali per attirare nuovamente le major nel Paese.
«Muovetevi, che i vostri concorrenti sono già lì!» è l’appello lanciato giovedì scorso agli industriali francesi da un esperto di cose iraninae, Michel Malinsky, incaricato di organizzare una missione di industriali a Teheran già il prossimo gennaio. «Siamo già in ritardo» spiega intanto Xavier Hiuzel, veterano di Total, con una lunga esperienza nel Paese «gli Americani sono pronti a recuperare terreno, i tedeschi, al solito, hanno già messo le basi per il ritorno. E gli asiatici, cinesi in testa, non sono mica stati con le mani in mano».
Messa così, sembra che per l’Italia non restino che le briciole. Ma non è il caso di disperare: l’asse Roma-Teheran poggia su basi solide, radici che affondano nel tempo. Lo ha ricordato lo stesso ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif: «La collaborazione tra Roma e Teheran nel settore privato è molto solida » ha detto nella sua recente visita romana «e i problemi degli ultimi anni potranno essere eliminati». Vale per la Fiat, che ha rotto i rapporti con l’Iran nell’aprile del 2012, al pari di altre aziende obbligate a rispettare l’embargo. Vale, naturalmente, ancor di più per l’Eni e per l’industria dell’oil equipment tricolore, dai colossi Tenaris e Saipem fino alle multinazionali tascabili tipo Trevi, specializzate per rendere più efficienti le esplorazioni dei campi petroliferi.
È il greggio, al solito, al centro di qualsiasi dossier Iran. L’embargo ha strozzato l’industria, indispensabile sia per l’economia che per la politica degli ayatollah che comprano la pace sociale con prezzi ridicoli della benzina (sette centesimi al litro...). Nel 2011, prima dell’ultima stretta, il petrolio assicurava 117 miliardi alla bilancia commerciale iraniana, poi scesi a 77 miliardi nel 2012. Assai meno quest’anno. Facile, a questo punto, capire che per ritornare in forze a Teheran occorrerà investire risorse liquide. E render possibile ai piccoli, non solo ai big, la possibilità di attingere al credito, del resto garantito dal greggio. Sarà necessario, dunque, poter contare su una Sace robusta e liquida, che sia ancora pubblica o privatizzata sotto le insegne delle Generali.
Certo, è ancora presto per cantare vittoria: le frontiere della repubblica degli ayatollah sono ancora sbarrate. Ma la storia ci dà conforto. Correva l’anno 1957, infatti, quando Enrico Mattei e lo scià Reza Pahlavi annunciavano al mondo la costituzione della Sirip, la società mista tra l’Eni e l’ente petrolifero iraniano: per la prima volta una società occidentale riconosceva a un Paese produttore i tre quarti degli introiti ricavati dalla produzione del petrolio. Una sorpresa per inglesi e americani, che quattro anni prima avevano reinsediato lo scià sul trono. Senza fare i conti con Mattei che, tanto per consolidare l’asse con il greggio persiano, aveva addirittura proposto allo Scià, allora scapolo, di chieder la mano di Maria Gabriella di Savoia. Anche così si costruiva l’Italia dei miracoli.