Martino Cervo, Libero 26/11/2013, 26 novembre 2013
ALTRA EURO-SBERLA: IL FISCAL COMPACT? COSÌ NON PUÒ ANDARE
Il fiscal compact non funziona. A mettere più di un dubbio sul meccanismo più noto (e doloroso) dell’eurozona, approvato nella quasi indifferenza generale a settembre 2012 dal nostro Parlamento, è un ex pezzo grosso del Fondo Monetario. Lo studio di Ashoka Mody, esperto proprio di Europa durante il suo lavoro al Fmi e oggi visiting professor alla Woodrow Wilson School dell’università di Princeton, si chiama «A Schuman compact for the euro area» e ieri è stato ampiamente citato (e in parte confutato) da Wolfgang Münchau, il fustigatore dell’eurozona del Financial Times. In sé, lo studio è un contributo alle migliaia di tonnellate di carta prodotte sulla crisi peggiore dal Dopoguerra. A essere interessante è la tesi collegata alla fonte: il Bruegel Institute è un think tank che più europeo non si può. Nel board siedono ex membri di governo di mezzo continente, tra cui un certo Jean-Claude Trichet, il predecessore di Mario Draghi alla guida della Banca centrale europea. Dunque siamo lontani dalle tesi di solito bollate come «populiste» o demagogiche. Né ovviamente Mody è un nemico preconcetto dell’euro. La sua tesi è piuttosto pragmatica: le pretese di unione bancaria e fiscale non sono a portata di mano. La forza politica di cui necessitano cambiamenti epocali non è semplicemente disponibile, e andando avanti così l’intero impianto rischia di portare al collasso, a partire dagli Stati più deboli o con i parametri più ballerini. Va da sé che all’Italia le orecchie dovrebbero fischiare.
LE RESISTENZE
La tesi di Mody non è nuova, anzi si sposa piuttosto bene con la piega che sta prendendo il dibattito in corso tra le forze del futuro governo tedesco. È ormai chiaro che l’intesa tra la Cdu di Angela Merkel e la Spd passerà da una stretta poco «europea»: l’unica certezza è che Berlino resta non disposta a cedere mezzo euro del contribuente germanico senza che la decisione passi dal Parlamento (e venga dunque bloccata). Alla Germania, come noto, interessa anzitutto stoppare la possibile «ingerenza » della Bce in un regime di unione bancaria vera e propria, voluto da Draghi. Tuttavia è semplice notare che questo doppio standard non può durare per sempre: fin qui la Merkel è stata europeista quando ha avuto lo spazio e la forza politica (quasi sempre) per «tedeschizzare » gli altri; ora che i passaggi successivi rischiano di togliere controllo a Berlino, il governo teutonico arretra.
NUOVO COMPACT
Lo «Schuman compact» proposto dall’esperto, con evidente contrapposizione al Fiscal compact entrato in vigore il 1° gennaio di quest’anno e che ci costerà sberle da decine di miliardi l’anno a partire dal 2015 è un modo di segnalare la necessità di procedere per step più graduali e basati, come suggerito dallo storico fondatore, su un’intesa concorde: chi ci sta, ci sta. Logica molto difforme dalla durissima gabbia imposta dai parametri con cui Letta sta dolorosamente facendo i conti sulla legge di stabilità. «L’attuale sistema di sovranità condivisa sulla politica fiscale tra Stati membri e istituzioni europee ha dimostrato di non funzionare», riassume Münchau: «Una genuina unione politica, con un’autorità fiscale centrale e un centro di controllo unico sulle banche non è politicamente fattibile. L’alternativa migliore è il ritorno alla responsabilità nazionale ». E qui cominciano i dubbi, almeno secondo il rubrichista del Financial Times. Gran parte dell’ideologia sottesa all’Europa, infatti, si basa sul cosiddetto «vincolo esterno», cioè sulla forza delle regole europee per costringere a riforme politiche sempre rinviate. Difficile immaginare che, proprio su ciò che sta più a cuore ai singoli Stati, i governi decidano di colpo di mettersi d’accordo. La sintesi migliore è ancora espressa da Münchau: «La sovranità comporta la libertà per popoli e governi di scartare ciò che le precedenti generazioni avevano inserito nei precedenti accordi». Fin troppo facile pensare al patto di stabilità, agevolmente violato dalla stessa Germania proprio per finanziare le riforme che le hanno fatto guadagnare produttività e vantaggi.
SILENZIO ITALIANO
La cosa davvero sorprendente di un ragionamento tutto sommato semplice è la scarsa eco politica che assume nel dibattito italiano. Da settimane ormai in maniera inequivocabile fanno capolino prese di posizione, studi, ricerche autorevoli e provenienti dal cuore del pensiero europeo che pongono problemi cruciali sulla sostenibilità delle istituzioni comunitarie così come stanno funzionando in questi anni di crisi. L’Italia, che è di certo tra i Paesi che paga il prezzo più alto di queste storture politiche e che tra poco inizia un semestre di presidenza potenzialmente cruciale, non si segnala per una presa d’atto dell’esistenza di questo dibattito. Solo che poi è difficile lamentarsi.