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 2013  novembre 26 Martedì calendario

QUANDO IL LUTTO DIVENTA CAPOLAVORO


Non c’è dolore umano più straziante del lut­to. Lo sapeva bene Ugo Foscolo, il quale dava ai sepolcri una funzione più utilitaristicachespirituale: ilmor­to è morto, chi soffre è chi resta. I cimiteri,le tombe, i sepolcri servo­no a illudersi di andare a trovare chi non si trova più da nessuna parte.È l’assurdo della fine biolo­gica, senza senso, che la mente del primate Homo Sapiens non può elaborare, la disperazione che ha inventato un’anima. Non per altro se scrivere diari sulla propria malattia è un gene­re in cui sono riusciti pochissimi (tra questi Hervé Guibert e Chri­stopher Hitchens), scrivere sulla morte dell’amato è ancora più dif­ficile, non c’è riuscito quasi nessu­no senza cadere nella lagna fune­bre. Se poi lo scrittore è una don­na, già culturalmente propensa a svenevolezze e spiritualismi be­nedetti o maledetti, ancora peg­gio, quasi impossibile. Immagi­no le nostre autrici, perfino le più giovani, ancora non uscite dal Medioevo: Michela Murgia pre­gherebbeAveMary, IsabellaSan­tacroce si consolerebbe parlan­do con fantasmi e demoni. Ammenoché la scrittrice non sia Joyce Carol Oates: il suo Storia di una vedova non è un semplice
memoriale per la perdita del ma­rito Raymond Smith, piuttosto un capolavoro sulla tragedia di so­pravvivere all’amato. Andrebbe­ro mozzate le falangi ai redattori della Bompiani per aver stampa­to sulla quarta di copertina la fra­se «la tua vita è un dono», come specchietto per le allodole, facen­dolo sembrare un libro di Paolo Brosio.Èinveceun’operaprofon­da e tragica, autobiografica ma di immenso spessore artistico, uno struggente libro d’amore e di do­lore con la t­enuta stilistica e strut­turale del romanzo. Affrontare la perdita nella consapevolezza del carattere effimero del mondo, delcaosdell’universo,dellafragi­lità del nostro essere organismi: Raymond, tra l’altro, muore per un’infezione polmonare da Escherichia Coli. Un batterio che vive normalmente nel nostro in­testino, ma che in certe condizio­ni può uccidere. Muore, d’altra parte, come morirà chiunque.
E così,da un giorno all’altro,tut­to cambia: alle 00.50 del 18 febbra­io d­el 2008 l’esistenza di Joyce pre­cipita in un labirinto di cose in­quietanti, inanimate. È molto peggio della metamorfosi di Kafka, perché non sei tu ma il mondo intorno a trasformarsi in un mostro. Gli oggetti di Ray sono di colpo solo «effetti personali da ritirare», il suo stesso corpo, im­mobile e gelido, un oggetto da affi­dare a estranei ( «In un batter d’oc­chi­o Ray è diventato non una per­sona ma una cosa »), il certificato di morte un foglio da portarsi die­tro in più copie, per espletare mil­le pratiche burocratiche. «In quanto vedova sarò ridotta a un inventario di co­se: cose che conser­veranno solo un pallidissimo barlume dell’identità e dell’im­portanza originarie, proprio co­me, in un guscio morto e prosciu­gato di qualcosa che nel passato ha posseduto peculiarità organi­che, si può forse individuare una traccia degli attributi che l’hanno caratterizzato».
In questa pietrificazione del mondo emotivo e organico, per chi re­sta non c’è più neppure una casa dove tornare, un nido in cui rinta­narsi: «è strano ammettere che possa ancora esserci una casa, adesso, senza mio marito: una ca­sa nella quale portare i suoi effetti personali». Così Joyce inventa dei trucchi, delle piccole illusioni che trascrive a uso e consumo di ogni vedova (e vedovo). Per esem­pio: pensare di essere in un’altra stanza. «Così, quando sono a ca­sa, posso immaginare che Ray sia nei dintorni». Coccolata dagli amici più cari, come gli scrit­tori Richard Ford (e la moglie Kristina) e Ed­mund White, rifug­ge però ogni pieti­smo.
Un memoir an­che filosofico, nel senso più moderno, dove la scrittura della Oates intreccia la quotidianità più pratica a rifles­sioni esis­tenziali che i nostri auto­ri umanisti si sognano perché di­giuni di scienza da almeno due se­coli. «Sprofondo nella confusio­ne se penso perché c’è vita e non cessazione di vita. Non so spiegar­mi il primissimo sforzo per con­fermarsi nella vita - quello degli organismi unicellulari che, in una sorta di magmatico brodo chimico, miliardi di anni prima della comparsa dell’uomo, han­no lottato per prevalere, resistere e continuare». Allora la vedova, attanagliata dal suo dolore, si in­venta ogni notte un modo per dor­mire, ogni mattina un modo per svegliarsi e affrontare un’altra giornata, riflettendo sulla vita, sul suicidio, rileggendo Charles Darwin o Daniel Dennett, e sen­za mai cedere alla sconfitta né al pensiero banalmente consolato­rio.
È un libro struggente, coraggio­so, commovente,più intenso del­l’ Everyman di Philip Roth: una everywoman vivisezionata in pri­ma persona, sulla propria pelle. In questa «ontologica commedia degli orrori»,nell’esperienza del­la perdita come «fenomeno im­prescindibile della vita umana», avendo cura di evitare le «stanze fantasma» della casa e perfino di guardarsi allo specchio, Joyce cer­ca un significato che restituisca un senso alla sua vita di sopravvis­suta. Non un senso consolatorio universale,ma per se stessa. Un si­gnificato non stupido e mai cie­co, mai uno sguardo rivolto a un cielo che non c’è e non significa niente. Un significato minimo, in­timo, sul nostro restare vivi, per­ché alla fine «senza un significa­to, il mondo è fatto solo di cose ­cose che si moltiplicano all’infini­to ».