Giordano Bruno Guerri, Il Giornale 26/11/2013, 26 novembre 2013
I SEGRETI DELLA NOTTE STELLATA CHE RESERO FOLLE VAN GOGH
Le lettere di Vincent van Gogh al fratello minore Theo, mercante d’arte, sono un documento preziosissimo per capire la vita e il genio del grande pittore. Sono meno note le altre lettere della sua fitta corrispondenza, e forse mai era stata tentata l’impresa di realizzare - con amore e spirito critico- una scelta fra tutte. Ci è riuscita Cynthia Saltman, studiosa americana, in un magnifico volume-cofanetto, con illustrazioni che giustificano il prezzo: molte lettere sono corredate da schizzi accurati, e accompagnati dal risultato finale, gli olii oggi fra i più costosi della storia: Vincent van Gogh, Lettere (Einaudi, pagg. LXXI, 761, 85 euro).
La maggior parte sono scritte a Theo, il fratello perbene, ordinato e oculato. Il suo grande merito fu di avere intuito il genio di Vincent e di averlo aiutato economicamente, anche se con molta parsimonia, per tutta la vita. Vincent gli scrisse oltre 650 lettere, nelle quali più che a un fratello sembra che si rivolga all’intera umanità,esprimendo con precisione e sottigliezza i propri pensieri. Era uno scrittore semplice ma efficace, tanto che uno dei suoi maggiori studiosi, Mel Shapiro, ha definito le sue lettere «un monumento d’autorivelazione, degno di figurare accanto alle opere dei grandi scrittori russi, maestri di confessioni». Shapiro esagera ma certo quelle lettere rappresentano un’autobiografia avvincente e la migliore analisi della pittura di van Gogh.
Non fu un caso se la svolta della sua vita avvenne proprio con una busta da lettera, nel 1880. Da giovane pensava di voler diventare sacerdote, prima di conoscere la crudeltà degli uomini. Una mattina, pigramente, estrae di tasca una matita, la busta di una lettera, e fa lo schizzo di un minatore che passa per strada. Fin da bambino non aveva mai saputo resistere all’impulso che lo spingeva a disegnare su un pezzetto di carta, ma non aveva mai pensato di essere davvero bravo, né tanto meno di farne una professione. Da quel giorno, invece, i disegni diventano per lui una frenesia, ne fa continuamente, copiandoli e ricopiandoli. Si accorge presto dell’importanza della sua pittura.In una lettera a Theo dell’estate dell’83, la numero 309, manifesta la coscienza di avere capacità al di là di ogni norma. Scrive pure che gli restano ancora da sei a dieci anni di vita: saranno sette.
Il suo irrisolvibile problema umano fu non riuscire a conciliare il furore del genio con un briciolo di normalità. E quando il genio finirà per prevalere, com’era naturale che avvenisse, la sua vita quotidiana ne verrà schiantata. Senza che mai una donna si sia innamorata di lui, conobbe soltanto la carne delle prostitute, fino a tentare di metter su una famiglia proprio con una sgraziata puttana olandese, Sien, immortalata nel disegno Sorrow .
La famiglia (il padre è un sacerdote protestante) fa di tutto per convincerlo a lasciarla. Il pittore si difende con tutte le forze: «Un critico non deve occuparsi della vita di un artista», sentenzia. «E poi io non voglio né la vostra stima né i vostri soldi. Lasciatemi in pace». Ma Theo ha le idee altrettanto chiare. «Non è una donna che tu possa sposare, Vin. Aiutala ma non la sposare ». Vincent: «Mi è attaccata come una colomba domestica. Mi aiuta a dipingere. Se non la sposo tornerà alla vita di prima, perderà il bambino ».Theo:«Spezzerai il cuore di nostro padre. È anche cattolica! ».Vincent:«Vada al diavolo chiunque voglia ostacolarmi. Non sono un criminale. Sono libero di sposarmi. E poi, quanto ai miei vestiti» -gli veniva rimproverato il modo straccione di vestire - «sono libero di vestirmi da operaio e voglio anche vivere da operaio». Theo: «Nostro padre ti farà dichiarare incapace di intendere; si farà dare la tua tutela». Vincent: «Non può, non può, non può e non m’importa! Rinnego tutto, lascio il mondo in cui sono nato. Che possiate andare tutti nel vostro inferno! ».
E si arriva alla«follia»di van Gogh, nel sud della Francia, con il breve periodo trascorso con Gauguin e l’episodio dell’orecchio mozzato. Metto follia fra virgolette, perché non credo alla tesi della pazzia vangogghiana, che era solo l’estrema tensione di un uomo stremato dall’assenzio, dalla fame (spendeva tutto in prostitute, alcol, colori e tele) e dalla creatività. Se Vincent ha paura che Theo non gli dia più soldi, sa che non potrà rifiutarsi di pagare la retta del manicomio, dove il problema della vita quotidiana è risolto senza tante complicazioni. Così finge di essere pazzo.
Perconvincersenebastaleggere la lettera che scrive a Arnold Koning, un pittore olandese: «Quanto alla causa e alla conseguenza di questa mia indisposizione, penso sarà saggio da parte mia affidare la soluzione di questi problemi alle discussioni casuali dei catechisti olandesi, vale a dire se sono pazzo o non sono pazzo, se sono stato pazzo, e quindi ancora lo sono in alcune mie fantasie di tipo puramente plastico, e se così non è, se già fossi pazzo prima di allora, e se lo sono al momento attuale o se lo sarò da ora in avanti». Theo invece deve continuare a credere che è un pazzo non pericoloso: «Lasciatemi continuare tranquillamente il mio lavoro, e se sarà quello di un pazzo tanto peggio. Penso di accettare semplicemente la mia figura di pazzo così come Degas ha assunto la figura di un notaio». Ogni tanto, per sovrapprezzo, spaventa il fratello, che vorrebbe godersi la luna di miele con la sua bella sposa olandese. «Se fossi senza il tuo appoggio mi lascerebbero andare al suicidio senza rimorsi, e benché io sia vile finirei per andarci». È dopo questa lettera minatoria che Theo si decide a pagargli il ricovero in manicomio.
È l’epoca dei suoi maggiori capolavori. Moltissimi critici hanno cercato di spiegare il mistero della Notte stellata nei modi più vari e fantasiosi, e spesso si sono rifatti alla malattia, come se solo un pazzo potesse dare un’interpretazione così nuova, così unica, di un fenomeno al quale l’uomo assiste dall’alba dei secoli. Di certo, quando Van Gogh dipinse quelle stelle in processione, vive e fluttuanti, accadde qualcosa di terribile nella testa del povero Vincent. Quella notte riuscì a scoprire qualche segreto troppo grande nel traffico dell’universo. La comunione fra il cipresso e il roteare pazzo delle stelle costituisce un complotto che nessun uomo deve conoscere, per non rischiare di venirne schiantato.
Forse ci può aiutare a capire una lettera che aveva scritto alla sorella, subito dopo avere scoperto Walt Whitman: «Hai già letto le poesie americane di Whitman? (...) Egli vede nel futuro, e anche nel presente, un mondo di salute, di amore fisico ampio e schietto, d’amicizia, di lavoro, con il grande firmamento stellato. Qualcosa che infine non si può chiamare che Dio e l’eternità, tutto rimesso a posto al di sopra del mondo. Ci fa sorridere, in un primo tempo, tanto è candido e puro, e fa riflettere per la stessa ragione». Allora ecco, da Foglie d’erba , gli stessi versi che lesse van Gogh: «Ostentazione del sole! Io non bisogno di espormi a te, / cammina! Tu illumini soltanto superfici. / Io forzo superfici e profondità. / Terra! Sembra che tu aspetti qualcosa dalle mie mani. / Di’, vecchia testona: cosa vuoi? / Uomo o donna, vi direi quanto vi amo, ma non posso. / Vi direi quanto è in me e quanto in voi, ma non posso. / Vi direi lo struggimento che ho, / quella pulsazione delle mie notti e dei miei giorni. / Ma non posso».
Dopo avere finito La notte stellata , Vincent tentò di ammazzarsi e ebbe una crisi di pazzia che durò più di un mese. Il fratello lo trasferisce ad Auvers, più vicino a Parigi, ma non troppo, per carità. Vincent non ce la faceva più, specialmente da quando ha capito che lo aspetta ancora un compito immenso: è l’ultimo e il più grande degli impressionisti, è il primo e il più grande dei fauve , hainv entato l’espressionismo ed è addiritturasulpunto di rivelare al mondo l’astrattismo e l’informalismo: «Se osassi lasciarmi andare, rischierei ancora di più a uscire dalla realtà, a fare con il colore come una musica di toni. Ma la verità mi è così cara, e il cercare di fare il vero anche. Insomma, credo di preferire ancora di essere calzolaio che non musicista di colori ». È una lettera del 12 febbraio 1890, poco prima del suicidio.
La conclusione dell’ultima lettera di Vincent van Gogh a Theodel 29 luglio 1890 è la sintesi della sua vita e la spiegazione della sua morte: «Ebbene, nel mio lavoro ci rischio la vita, e la mia ragione vi si è consumata a metà». Non termina la lettera, se la mette in tasca.In un’altra tasca mette la pistola, poi scende nei campi e si spara a un fianco, puntando verso il cuore. Nell’agonia, a chi gli chiede «perché?» spiega gentilmente: «Mi scocciavo, e allora mi sono ucciso ». Mi scocciavo. Ma nessuna lingua può tradurre bene il verbo che usò in francese: «Je m’emmerdais». Per questo si sparò in una buca del letame.