Fulvio Abbate, Il Fatto Quotidiano 26/11/2013, 26 novembre 2013
ANNA, L’IMMOBILISMO DELLA REPUBBLICA
TELEVISIVA –
Anna La Rosa, giornalista, calabrese, titolare del suo “TeleCamere” con sovraprezzo di “TeleCamere Salute” (da tempi ormai immemorabili su Rai3), si può ben dire che pienamente appartiene all’avventurosa storia del servizio pubblico. Con i suoi sommi privilegi politici, e del suo annesso “manuale Cencelli”, con annessa letteratura clientelare. Seppure da una posizione arretrata, una sorta di (solo in apparenza, dai) seconda linea dei palinsesti, La Rosa è tuttavia riuscita a caratterizzare la presenza del suo continuum nel planisfero della Rai in modo, appunto, quasi imperiale. C’è stato addirittura un momento, sempre nelle storie delle ormai infinite repubbliche nostrane, nel quale non si poteva non menzionarla, in una sorta di prosecuzione della dolce vita aziendale romana; su tutto, svetta, infatti, il ricordo personale, assai dorato, di una festa in sua maggior gloria sull’Appia Antica, una sorta di prequel di ciò che sarebbe poi stato tratteggiato dal regista Sorrentino Paolo ne “La grande bellezza”, con mille ospiti tra i più disparati e particolari per evidenza ufficiale e mediatica, e un trono pronto per il più invasato dei suoi fan di allora, Francesco Cossiga, che tuttavia quella sera stellata e stellare non poté esserci per via di un incidente, mi pare, all’anca, e allora via con il collegamento esterno, e intanto un frullare di centomila amici d’ogni colore partitico, professionale, lobbista e culturale per rendere felice Anna, da Gerace, Calabria, Italia.
NON HO CITATO a caso il “trono” destinato un ventennio addietro al Gatto Mammone Cossiga, no, l’ho chiamato in causa perché quell’immagine è propedeutica al racconto della confezione giornalistica cara a Lor Signora di “TeleCamere” che, sia detto per inciso, nel proprio palmarès in negativo non può non mostrare la responsabilità di avere, nel novembre 2006, ricevuto dall’Ordine dei giornalisti del Lazio la sospensione per 4 mesi, in connessione ai fatti contestati dal pm Woodcock, “storie di lobby di politici e faccen dieri, giornalisti e affaristi dediti alla compravendita di favori,” così recita Wikipedia. Ecco, quel trono, così come gli arredi di scena di “TeleCamere” e di TeleCamere Salute”, in tutto simili a ciò che troveremmo in un salone d’esposizione di mobili di gusto barocco pacchiano, rivestiti di broccato, piazzato presso una strada provinciale o perfino consolare, le foto dei ben noti lì incorniate con opportuni riverberi d’argento come fossero parenti, amici carissimi, figli, nipoti, imperdibili clienti, parla più di mille dichiarazioni d’intenti, è un’autobiografia del costume dell’informazione nazionale; e questa percezione si ha di qualunque cosa Anna stia trattando, sia presente la ministra Cécile Kyenge, come poche sere fa, sia ragionando di anoressia con l’ausilio di servizi esterni che ricordano lo stile ormai remoto nella memoria, che so?, di “Tg L’Una”, se te ne ricordi. Anna La Rosa e i suoi divani e divani sono una perfetta metafora di ciò che potremmo definire l’immobilismo dell’anno meno zero di una Repubblica televisiva.