Ivo Romano, Avvenire 27/11/2013, 27 novembre 2013
I PUGNI FANNO MALE
Un pugile in coma, dal 2 novembre scorso. Condizioni che peggiorano, timori per la sua vita. Non uno sconosciuto, anzi un potenziale campione. Magomed Abdusalamov, 32 anni, russo, peso massimo. Una promessa, anche di più (18 match e 18 vittorie, prima di allora). Un match duro, cruento contro il cubano Mike Perez sul ring di New York. Finito nel peggiore dei modi. Abdusalamov non va al tappeto, conclude la sfida in piedi. Ma con il volto devastato. Poi si sente male, negli spogliatoi. La corsa all’ospedale, dove è ancora ricoverato oggi. Senza mai essersi svegliato.
Qualche settimana prima, il supergallo Frank Leal era morto, dopo essere stato sconfitto per ko da Raul Hirales, in Messico. Pochi giorni, due drammi. E via al dibattito, quello di sempre. Pugilato troppo pericoloso? Disciplina da abolire? Di qua i favorevoli, di là i contrari. Una contrapposizione senza fine, che dura da una vita. Il mondo cattolico, da sempre contro. Comunque, attento. Ne è trascorso di tempo da quando la rivista “Civiltà Cattolica” diede il là a un acceso dibattito tra favorevoli e contrari alla pratica del pugilato, con un articolo dal titolo inequivocabile («Immoralità del pugilato professionistico»), un atto d’accusa, nel quale si parlava senza mezzi termini di «omicidio legalizzato». A cui rispose un’accorata difesa. L’abituale balletto di posizioni, quello di sempre. Perché le cose cambiano, la sicurezza cresce, ma le tragedie non mancano: il pugilato continua a provocare drammi.
Le cifre sono sotto gli occhi di tutti: quelle ufficiali, spesso approssimate per difetto, altre più precise, che portano alla luce casi fin troppo numerosi. Con le dovute differenze, tra Paese e Paese. Perché la prevenzione è aspetto fondamentale. E i rischi sono ad essa inversamente proporzionali. Se il pugilato è la punta dell’iceberg, non si possono trascurare altre discipline, che spesso vivono nel sottobosco dello sport, ma che della boxe sono discendenti dirette o parenti strette. E allora la tragica contabilità lievita. Negli Usa c’è chi s’è preso la briga di aggiornarla, con maniacale precisione: Manuel Velazquez, di Tampa, che fino al suo decesso avvenuto nel 1994 ha curato un autentico registro dei morti per sport da combattimento (pugilato, innanzitutto), lasciandone l’eredità ad altri. Dati molto superiori a quelli ufficiali. Un paragone basta a farsi un’idea: The Ring Record Book and Boxing Enciclopedia parlava di 164 morti tra il 1918 e il 1950, più altre 269 fino al 1980, mentre la Vazquez Collection ne evidenzia 377 tra il ’18 e il ’50, e altre 345 tra il ’51 e l’80. Il totale, dal 1920 al novembre 2007 (ultimo aggiornamento) parla di qualcosa come 1.465 morti in sport da combattimento (con una media superiore ai 15 all’anno), circa il 70% dei quali registrati sui ring professionistici.