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 2013  novembre 26 Martedì calendario

IL SUCCESSO DELLA DIPLOMAZIA SEGRETA LE SPIE INVISIBILI HANNO TESSUTO IL DIALOGO


WASHINGTON — Immaginate la scena. Fine settembre di quest’anno. Studio Ovale della Casa Bianca. Su una poltrona Barack Obama, sull’altra il premier israeliano Netanyahu. Il presidente americano, prima di entrare nel vivo delle discussioni, offre l’antipasto all’ospite: stiamo trattando in segreto con l’Iran e abbiamo avuto già due incontri.
Netanyahu avrà finto sorpresa. Anche se sapeva tutto e da molti mesi. L’intelligence israeliana aveva scoperto i negoziati dietro le quinte con largo anticipo, sapeva che i nemici si parlavano, probabilmente ha tenuto d’occhio con mille antenne i mediatori. Anche perché i meeting si sono svolti in luoghi abbastanza accessibili per gli uomini del Mossad. La Svezia, la Svizzera e l’Oman, uno dei Paesi musulmani dove gli israeliani si muovono abbastanza bene. A Gerusalemme dovevano aspettarselo. Gli israeliani sanno bene che Iran e Usa sono stati costretti a parlarsi in modo riservato sin dall’inizio. L’occupazione dell’ambasciata americana a Teheran alla nascita della Repubblica islamica li ha privati dei canali normali. Inevitabile per gli Stati Uniti cercare altre strade. A volte tortuose come l’affare Irangate, con scambi armi-ostaggi che hanno coinvolto anche gli israeliani. E la tradizione è proseguita trovando nuova linfa (e sentieri) con l’elezione di Obama.
Il presidente ha sempre dichiarato di perseguire una soluzione sul nucleare iraniano, così ha investito molte risorse e uomini. Oggi tutti sono concordi nell’affermare che se a Ginevra è stato raggiunto un accordo una parte del merito va anche a questo percorso parallelo. Una diplomazia intensa a partire dal marzo 2013, ma anticipata da un lavoro estenuante durato probabilmente cinque anni, con alti e bassi, contrasti, passi falsi, minacce. Una storia della quale vi avevamo già parlato sul Corriere e che ora si arricchisce di altri dettagli forniti dalle ricostruzioni apparse sui media statunitensi.
Il grande attore di questa vicenda complessa è stato il vice segretario di Stato William Burns, un funzionario navigato, ambasciatore a Mosca dal 2005 al 2008, a lungo in Medio Oriente e protagonista dei primi negoziati con l’Iran nel periodo 2008-2011 sempre nel quadro dei colloqui tra le grandi potenze e gli ayatollah. Burns ha creato un rapporto di fiducia con gli interlocutori arrivati da Teheran. Un discorso iniziato quando in Iran era ancora presidente Ahmadinejad, figura intransigente e dura. In pubblico lanciava anatemi, in privato non escludeva il dialogo con il Grande Satana. Raccontano anche che nel dicembre 2011, John Kerry, allora semplice senatore, abbia compiuto una missione «coperta» a Muscat (Oman). Ma all’epoca non c’era però l’alchimia giusta e i mullah intransigenti non volevano esporsi alla reazioni degli estremisti. Situazione mutata con la vittoria di Hassan Rouhani, spinto in alto anche per creare un nuovo rapporto.
Subito dopo la sua elezione, Obama gli ha inviato una lettera consegnata in agosto da un messaggero importante, il sultano Qaboos dell’Oman. Quindi altri scambi di missive tra le due capitali e altre «chiacchierate» in luoghi sicuri, dalla Svezia al Golfo. Insieme a Burns, Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza del vice presidente Biden, e Puneet Talwar, responsabile dell’ufficio Iran. Davanti a loro gli interlocutori iraniani, i vice ministri degli esteri Abbas Araghchi e Majid Ravanchi. Per settimane hanno cercato di essere delle ombre invisibili, per nascondersi alla stampa e sottrarsi al giudizio di chi — anche nel Congresso — non gradisce il disgelo. Piccoli depistaggi e tanta riservatezza bucata però da qualche giornalista supplicato di non pubblicare la notizia ghiotta. Il riserbo ha tenuto solo in parte e dopo l’estate le indiscrezioni sono cresciute, con riferimenti sempre più precisi.
Il sistema messo in piedi da Burns ha funzionato. In settembre c’è stato l’incontro tra Kerry e il suo omologo Mohamad Zarif a New York, quindi la brevissima telefonata Obama-Rouhani. Simbolica, però importante per togliere un po’ di diffidenza. Poi un altro gesto: la restituzione all’Iran di una preziosa coppa persiana a forma di grifone sequestrata dai doganieri statunitensi. Un modo per dire che non c’era solo ostilità.
Il cammino ha portato alla trattativa novembrina di Ginevra, con gli americani che avevano già messo a punto molti aspetti del possibile accordo attraverso il team guidato da William Burns, ma avevano tenuto all’oscuro i partner. Dettaglio non da poco. E quando tutto sembrava pronto, la Francia si è messa di traverso. Alcuni punti della bozza erano considerati troppo morbidi nei confronti dell’Iran. Altra pausa negoziale, nuove consultazioni lontani dai riflettori, poi tutti a Ginevra per l’ultima curva. Dopo la svolta la firma sotto il compromesso nucleare.