Luigi Manconi, L’Unità 26/11/2013, 26 novembre 2013
I «CLANDESTINI» DI TRAVAGLIO
Qualche giorno fa, nel corso della trasmissione Servizio Pubblico, condotta da Michele Santoro (Michele Santoro!), si è ascoltato Marco Travaglio (Marco Travaglio!) parlare di un «centro per immigrati clandestini». Va detto subito che in Italia, tra i molti centri (nessuno dei quali particolarmente ospitale) destinati a stranieri, non si annovera un C.I.C.: ovvero l’acronimo che starebbe per «centro per immigrati clandestini». Probabilmente Travaglio si riferiva al CIE (centro di identificazione ed espulsione) di Ponte Galeria. Il centro nel quale sono state trattenute Alma e Alua Shalabayeva: ma il pensiero e la lingua gli sono scappati e ha pronunciato quel terribile «clandestini». In un primo momento ho immaginato che la paranoia colpevolizzante e criminologica della cultura di Travaglio potesse indurre quest’ultimo a vedere in ogni immigrato un po’ così – marginale e magari irregolare – un clandestino e, di conseguenza, un delinquente. Ma ho troppa considerazione verso Santoro e Travaglio per attribuire loro un pregiudizio così torvo e discriminatorio. Ho concluso, dunque, che quel «clandestini», impropriamente e irresponsabilmente utilizzato, avesse piuttosto un’altra origine. Fosse, cioè, un segno ulteriore di quella egemonia culturale del berlusconismo, pur nella sua fase estrema e declinante, di cui in quella stessa trasmissione ha parlato un Gianni Cuperlo particolarmente tonico e in palla. Sì, dev’essere proprio così, se è vero che quel termine così cupamente denotativo e stigmatizzante viene utilizzato da tanti che, a parole, e persino con enfasi eccessiva, proclamano il proprio virtuoso e infrangibile «antirazzismo» (compresi soi-disant comunisti e militanti ultra-sinistrici e centrosocialistici).
Avviene, insomma, che la crisi politica del berlusconismo operi più rapidamente di quanto proceda, sempre che proceda davvero, il disgregarsi del suo apparato ideologico-culturale. E di quell’apparato, l’orientamento e i correlati dispositivi linguistici e interpretativi nei confronti dell’immigrazione costituiscono una componente assai importante. In quell’orientamento, l’equazione immigrato = minaccia sociale e, di conseguenza, criminale e clandestino, gioca un ruolo molto significativo. Ma di tutta la sequenza, è quel «clandestino» che merita grande attenzione. Perché più subdolo e, allo stesso tempo, più iniquo.
Tanto più che quel termine – utilizzato in Italia pressoché esclusivamente per definire il militante del terrorismo di destra o di sinistra – si porta appresso fatalmente l’insidia dell’agguato, dell’aggressione alle spalle, della cospirazione nell’ombra. Ed è parola che, utilizzata per un ventennio dal leghismo e dalle formazioni di destra, arriva a ottenere infine riconoscimento normativo con la legislazione sulla sicurezza dell’ultimo governo Berlusconi: quella che ha introdotto prima l’aggravante (bocciata dalla Corte Costituzionale) e poi il reato di «immigrazione clandestina».
Se consideriamo l’origine di questo termine, la sua etimologia appare sufficientemente chiara: deriva dal latino clam-des-tinus. Clam discende da Kal o cal, particella che ritroviamo nei termini «celare» e «occulto». A questa radice, nella seconda sillaba, sembra aggiungersi dies (giorno). Letteralmente, quindi, ciò che sta nascosto al giorno. Ovvero quanto non è alla luce del sole.
Pensiamo, per comprendere di quale alterazione di linguaggio e di senso stiamo parlando, a ciò che è accaduto, nella forma più tragica e dirompente, con il naufragio del 3 ottobre davanti a Lampedusa. In quella circostanza, come in tante altre precedenti, si è palesato lo scarto crudele che separa quelli che – ricorrendo al titolo di un libro fondamentale – possiamo chiamare «i sommersi» e «salvati». Nella percezione collettiva e nel linguaggio comune, i sommersi assumono la dimensione e il nome di vittime. I salvati, ovvero quanti non sono morti in mare, diventano fatalmente i clandestini. Anche se la loro presenza e, ancor prima, il loro apparire sono quanto di meno clandestino si possa immaginare. Osserviamo quelle donne, quei bambini, quegli uomini che sbarcano a Lampedusa, illuminati dai fari delle forze di polizia e dalle luci delle televisioni. Spesso semi nudi e sempre laceri, senza alcuna protezione e tutela, senza la minima difesa. Sono l’immagine stessa della massima vulnerabilità e della «nuda vita» nella sua espressione assoluta. Neonati avvinti ai seni delle madri, mani intrecciate ad altre mani, corpi che si sorreggono vicendevolmente. Difficile immaginare qualcosa di più esposto, di più visibile, di più inerme: di meno clandestino al mondo.
Detto ciò dispiacerebbe che questo ragionamento fosse considerato una sorta di esercizio futile, un accanimento linguistico o, peggio, una irrilevante questione di dettaglio. Tutti abbiamo fatto, più o meno, il liceo classico e tutti ricordiamo, più o meno, che fu Ludwig Wittgenstein ad affermare che è la parola a costruire il mondo.
Post Scriptum. Travaglio ha sbagliato i nomi propri di Alma Shalabayeva e di sua figlia, ma lo si può comprendere: quando si tratta di questioni di libertà, è sempre un po’ impacciato.