Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 24/11/2013, 24 novembre 2013
IN VIAGGIO CON ZALONE: L’INVASIONE DEGLI ULTRACHECCHI
Nell’alba romana piove che Dio la manda, ma Checco Zalone vorrebbe arrivare in Puglia senza affidarsi al cielo: “Prendere il treno vi sembrava un’idea troppo antica?”. Saranno invece 40 minuti di aereo tra nubi e scaramanzie per precipitare sani e salvi a Foggia, in un aeroporto di frontiera che dall’alto è un’indistinguibile pianura tra mille tutte uguali e al suo interno, un deserto animato da miraggi semplici: “Checco, te la fai una foto per mia zia?”.
Venerdì autunnale, esterno giorno. Per raccontare bisogna scendere a bassa quota, seguire il fiume di consenso che corre parallelo a Luca Medici. L’uomo che faceva ridere. Il ragazzo che avrebbe voluto essere qualunque e invece, qualsiasi, non sarà più. A Ciampino lo salutano i carabinieri. Ai piedi della Capitanata, gli infermieri. Al primo Autogrill pietito con sincera disperazione da Candide al suo produttore, Pietro Valsecchi: “Guarda che il diritto al caffè è sancito dalla Convenzione di Ginevra”, baristi, benzinai, pellegrini fuori stagione e occasionali vicini di cesso. Il Messia ha esagerato. Pane, pesci e terrenissimi denari. Centoventi milioni di euro con tre titoli. Potrebbe fare il bagno nelle banconote, ritirarsi a vita privata, sfamare una decina di generazioni. Invece sta viaggiando verso il set di due comici esordienti. Si chiamano Pio e Amedeo. Scriverà una canzone per il loro film. In marcia nascondersi è illusorio e travisare il volto con la sciarpa, inutile: “Ma sei Zalone?”, “No è mio fratello”.
Lo scoprono subito, come accadeva al signor Malaussène dei ’70, l’impiegato Paolo Villaggio. Filini gli metteva molletta al naso e patata in bocca per camuffare la voce con il capo ufficio. Ma al momento di evitare la temuta corsa ciclistica indetta dal Visconte Cobram per i “carissimi inferiori”, il timbro del ragionier Ugo metteva il cambio sbagliato e rompeva la catena del travestimento: “Fantozzi, è lei?”. La matricola barra bis di Capurso con cui gli italiani si identificano senza eccezioni ancora non ci crede. Spezza cornetti avvizziti al bancone del bar. Cerca proseliti per dividere azzardo e senso di colpa: “Non fa male, perché non ne prendi metà?”. Ti parla preoccupato del padre irredimibile che, quasi settantenne, come lui in “Sole a catinelle” con l’aspirapolvere, trotta da un lato all’altro della regione come rappresentante di sigarette elettroniche: “Gli ho detto ’papà stai fermo, calmati, a te ci penso io, ma quello fa di testa sua e non ascolta nessuno’”. Poi, risalito a bordo, ne aspira una verissima, abbassa il finestrino e si sente solo all’inizio del viaggio.
Lui non è diverso da suo padre. È quello umile di ieri ed è probabile resti lo stesso di domani. Non vuole cambiare. La sola ipotesi di darsi un tono lo spaventa. Il problema sono gli altri. Quando lo vedono perdono la testa. Chi dovrebbe scortarlo, per l’emozione, tampona e non arriva. Checco quasi non ci crede. Domanda lumi sull’incidente come se la narrazione riguardasse un altro. Domani forse, mentre “Sole a catinelle” irrompe a sinistra, Michele Serra fa il casché dalle colonne de L’Espresso e Renato Brunetta gioca all’annessione intellettuale indossando i panni di un parodistico crociato, al signor Medici offriranno l’ingresso in politica. La mèta più vicina per adesso -poco meno di una vacanza rispetto al delirio nazionale impreziosito dal dibattito in corso sull’epocalità del fenomeno- è un paese stravolto. Si chiama Monte Sant’Angelo.
Ha un santuario “Patrimonio Mondiale dell’Umanità”, quindicimila anime, la protezione dell’Unesco e ripide curve per farsi raggiungere. Luca Medici le ricorda a memoria. Le affrontò da bambino in una trasferta simbolica: “Mia madre venne qui da Bari a fare l’amniocentesi perché all’epoca, l’apparecchio adatto esisteva solo qui”. Il tassista guida a passo prudente, Celentano è una nota languida dallo stereo: “Passano gli anni/ma otto son lunghi/però quel ragazzo ne ha fatta di strada”. Checco lo scimmiotta, scherza, lamenta l’altra faccia della popolarità: Per mettermi un termosifone Il caldaista mi ha chiesto quasi tremila euro, pensano tutti che abbia fatto 13 o che sia diventato completamente scemo”, immagina nuovi personaggi: “Mi divertirebbe pensare a un Celentano che canta cose serissime con impronta da santone” e guarda fuori. Altre Via Gluck. Nuove partenze. Eterni deja-vù. A Monte Sant’Angelo rinasce qualcosa. Nel 1972, con l’aiuto di Florinda Bolkan, Lucio Fulci ambientò su questo picco, il più alto di Puglia, “Non si sevizia un Paperino”. La più maledetta delle sue visioni.
A Fulci, prima di riscoprirne talento e maestria, diedero del cialtrone. Con Zalone, i solòni che eccepivano sono stati neutralizzati da un risultato senza precedenti. Per i vecchi che hanno appeso le foto di quel preistorico set a pareti colme di autografi stinti dei divi di allora, l’apparizione di San Checco è un segno divino. L’ultima, definitiva, plastica conferma. Con i fari, le luci e i dialetti forestieri, un giorno c’era stato il cinema. E oggi, il cinema è tornato. Da alcune settimane, alla miracolosa bellezza dei vicoli bianchi, dei saliscendi improvvisi e dell’orizzonte affacciato sul mare, questo agglomerato indifferente ai secoli si è rianimato con lo stesso colore del passato.
Checco è assediato. Posa paziente per scatti anonimi che non si vedranno sui giornali, mentre intorno, con le ragazzine emozionate a scuotere le transenne, balla il caos di una vera troupe. I macchinisti incazzati, i direttori di produzione agitati: “A regà, dovete stà indietro, così nun se può ’ffà”, Guendalina, la grassa gallina di scena, libera di lordare il sagrato, le ballerine infreddolite in attesa del ciak, il ristoratore di fiducia con il profilo da caratterista, il caciocavallo podolico, i vigili urbani in crisi di vanità, i balconi pieni di parenti, i flash dei telefonini. Una pagina di Brancati. Un graffio di De Sica. Un fotogramma da Italia anni ’50. Un bianco accecante riflesso nella modernità. Agli 800 metri di Monte Sant’Angelo, dove in tenuta primaverile, Zalone e Valsecchi soffriranno la colpevole sottovalutazione di una corrente polare, va in scena una sorta di remake. Un tentativo di imitazione del percorso originario. La via Francigena dello share. Prima di Checco e di Mediaset, per Luca Medici, c’erano state le tv locali. Prima di Pio e Amedeo, star autoctone al loro debutto cinematografico con la benedizione di Zalone, tutte le Telenorba del tacco da Leuca a Vieste. Il laboratorio errante dei Gianni Ciardo e dei Solfrizzi, degli Stornaiolo e dei Pre-terruncielli alla Giorgio Porcaro. Uno che dal Derby di Milano era passato agli accenti del Tavoliere transitando in produzioni povere che anche in ristrettezza economica e in permanente trasferta di senso, denunciavano l’ispirazione d’origine. In “Si ringrazia la regione Puglia di averci fornito i milanesi”, 10 anni prima di Forza Italia, c’è già Max Bernasconi, imitazione non solo nominale di Berlusconi e sempre alla tv e al suo universo di riferimento, anche nel copione, si ammicca: “Zitto tu che hai delle corna così lunghe da prendere anche Tele Cornovaglia”. Pio Grieco e Amedeo D’Antino, l’ultimo avamposto della filiera comica pugliese, sono il giorno e la notte. Un biondo finnico e un Calimero, un buono e un “figlio di puttana”, un ingenuo e un mascalzone nati a un soffio di distanza nell’agosto ’83 che al mezzo televisivo devono molto. Facevano “Occhio di bue” e ’U Tub a Telefoggia. Rompevano i coglioni ai tifosi, nostalgici di Zeman e amministratori. Un giorno si mischiano al pubblico delle Iene. Affrontano un autore: “Dacci solo due minuti”. Quello glieli concede e l’esistenza cambia direzione.
Ora Valsecchi gli ha dato un set, gli attori d’accademia per accompagnarli, il regista di un altro filone fortunato (Enrico Lando de “I soliti-idioti) e l’aiuto del più famoso fenomeno contemporaneo. A 40 anni, dopo aver recitato nel Cyrano scritto da Modugno (ancora Puglia), Valsecchi decise di finanziare storie con sua moglie, la bellezza di pensiero veloce Camilla Nesbitt. Scintilla semantica della Taodue, nel ’93, una litigata “coniugale” a Taormina. Poi via insieme con Bellocchio, l’Ambrosoli di Placido, Moro, Borsellino, l’Italia del ’68 e ora, anche Zalone. Checco lo accompagna sul campo. Cova impensabili umiltà e titubanze al confine col pudore: “Mi ricordo la tensione e il giramento di coglioni che all’esordio sul set provavo verso gli osservatori esterni” ma poi protetto dalla tenda, davanti al monitor, beve caffè, si stringe nella giacca e fumando fino al filtro, abbandona il timore di essere di troppo. Il reclutamento dei comici avanza. Checco sa che andrà oltre i suoi 50 milioni. Più in là del cinismo, del lampo geniale e di una rincuorante lucidità che forse è solo una protezione, l’unica possibile, dall’onda d’urto del trionfo che prova a minarne invano l’equilibrio interiore. Andrà dove c’è un’idea. Lui se lo augura. E anche se l’esordio di Pio e Amedeo non correrà a Cannes e non ha ancora un titolo certo (potrebbe essere “Amici come noi” mentre “Fuggi, fuggi, fuggi da Foggia”, probabilmente il migliore, pare sia stato bocciato) la partita in corso ha una dinamica rodata. Valsecchi non è un filantropo, frequenta se provocato l’arte del vaffanculo, ma rifiuta di affrontare l’ipotesi produttiva protetto da una scrivania. Fa scouting. Si sporca le mani. Gira i teatri, legge i copioni e numeri della rete. Quelli di Pio e Amedeo erano mostruosi. Loro lo hanno incontrato. Hanno scritto, argomentato, sperato, quasi rinunciato. Poi discusso ancora. A meno di un anno dalla genesi del progetto, a febbraio, saranno in sala. Con “Sole a catinelle”, con l’invasione degli “ultrachecchi”, il signor Medici ha fatto riaprire persino quelle chiuse.
A Monte Sant’Angelo l’ultimo cinema si è arreso qualche anno fa. Dopo una stagione in cui le Giovannone, gli interni bergmaniani, i poliziotti scomodi e gli ultimi tanghi sembravano poter danzare insieme. Dopo la grande gelata, nell’aria ingannevolmente luminosa del paese e nelle profezie degli ottuagenari puntualmente confermate: “Tra due ore arrivano le nuvole e scende la nebbia”, c’è chi nel raggelato Zalone: “Ma che cazzo di freddo fa qui?” e nei suoi epìgoni vede un’epifania generale. La resurrezione complessiva di un sistema. Checco è trattato da Re taumaturgo ma non se ne preoccupa. Minimizza con una battuta: “Non sarà certo colpa mia”. Scopre che il giorno dopo la carovana smonta per trasferirsi ad Amsterdam e a fine riprese partiranno tutti: “Ma non dovevamo rimanere a fare festa?”, cerca un passaggio per Capurso: “Se mi lasciate in stazione va benissimo” e ride all’ombra della chiesa con Francesco Silvestre. Kekko dei Modà.
In “Amici come noi” ha un piccolo ruolo (come lo aveva Caparezza nel seconda fatica di Checco) e osserva comparse e maestranze agitarsi nella piazza centrale di Monte Sant’Angelo. Checco, il suo omonimo con la K, Pio e Amedeo hanno parabole simili. Li unisce la gavetta. Partiti da zero, sopravvissuti alle porte in faccia e arrivati al plebiscito (il cantante guida un gruppo che ha un milione di fan su Facebook e 100 milioni di pagine visualizzate sul canale Youtube dedicato alla band). Sono persone semplici e parlano di cose semplici. Figli, miti adolescenziali (per Kekko, la trilogia di Salvatores di cui cita con perizia ossessiva ogni singola battuta) e desideri. A pochi metri di distanza, in piena crasi tra sacro e profano, la tavola imbandita. Alessandra Mastronardi, sposa fino a pochi minuti prima, è in borghese al fianco di Maria Di Biase. Massimo Popolizio, moloch ronconiano, reduce dal Leopardi di Martone e indimenticabile spacciatore di Botox ne “La grande bellezza” di Sorrentino in cui rampogna Serena Grandi: “Tu m’hai tradito, noi avevamo un percorso”, nella commedia di Lando è un nobile in sedia a rotelle, pigro, cattivissimo e annoiato che non cammina per scelta. In pausa, tra le zuppe e l’acqua minerale, Popolizio parla lentamente. Stringe gli occhi e innaffia i concetti con sapienza. Distingue il mestiere tra abusivi, improvvisati e degni interpreti. Lo fa con empirismo pari alla precisione enciclopedica e ne discute con Zalone: “Checco definiscimi un bravo attore”. Passano due secondi e mezzo: “Io lo guardo e ci credo”. Popolizio: “All’attore deve succedere qualcosa, se non gli succede niente, meglio che cambi strada”. Lo ascoltano in silenzio. A Kekko piace Argentero. A Popolizio, Abatantuono, Orsini e soprattutto il Luca che si fa chiamare Checco: “Sei il numero uno, un fuoriclasse assoluto perché sei cattivo. Fai un controcanto salvifico alla melassa imperante. Sei come Jerry Lewis, non cerchi conciliazioni”. Si mangia. Si beve. Si ride. È una parata di amici, il soffio dell’artigianato di ieri, dell’industria cinematografica non estinta, in un proscenio che potrebbe ricordare la lezione monicelliana. La Sulmona di “Parenti serpenti”. Zalone ha studiato, la freddura di Cinzia Leone alla figlia obesa in pasticceria non l’ha dimenticata: “Smettila di mangiar bocconotti che mi vieni su con un culo che fa provincia”. La ripete mentre oltre i vetri le nuvole si danno la staffetta con i fulmini e qualcuno, in buonafede, chiede un bicchiere di “Nero Troia”. Zalone, serissimo: “Potrei avere un calice di bianco mignotta?”. Abbracci, pacche sulle spalle, soldati da palco, congreghe maschili in libera uscita. Pio e Amedeo arrivano in coda a tutti gli altri. Nel film che uscirà il 13 febbraio hanno una agenzia di onoranze funebri Hi-tech e un rosario di equivoci, video compromettenti, scambi di persona e gag. Sembrano spiritosi: “Il regista è di Padova. A volte, dopo averci ascoltato per mezz’ora, confessa di non aver capito una mazza”. Sinceri: “Comunque vada questo film, è stata una botta di culo”. Solo relativamente intimiditi. Pio: “Checco, te lo diciamo prima. Noi ti copiamo. Se ritrovi le tre battute che hai scartato in “Sole a catinelle” nel nostro film non ti arrabbiare”. Amedeo: “Quando Valsecchi parla, ti chiedi che cazzo abbia detto. Poi ti accorgi che ha quasi sempre ragione”. Poi si grattano, toccano ferro, diventano gli stessi selvaggi sui quali la stella che sta per sparire dal canocchiale, getta un colpo di luce conclusivo: “Per ’Cado dalle nubi’-infilza Checco- avevamo molti meno mezzi, voi avete la Steady per le riprese dall’alto e pure il “drone”, lussi che io mi potevo soltanto sognare, è indecente”. I due, prontissimi: “Non sei contento di pagarci il nostro esperimento? Quando ce la mandi ’sta canzone?”. Ancora Zalone: “Voi sbrigatevi a finire prima che chi vi ha presi ci ripensi e non vi preoccupate del famoso critico, quando quello scrive male di voi avete una certezza, il film andrà benissimo”.
Altri tarallucci. Altro vino. Prima di riscendere a valle, tra le strade strette, Zalone dice ancora sì. Altre foto. Altri gridolini. Si sporge pericolosamente dalla terrazza una signora di età incerta. Guadagna un saluto. Checco è la più laica delle madonne ambulanti, la più normale, la più gentile. La più esausta. Trasfigurato, prende posto sui sedili posteriori di un’auto nera che abbandona Monte Sant’Angelo tornante dopo tornante. L’autista tenta un sorpasso azzardato, Zalone perde dieci anni di vita e l’ultimo appiglio di forma alla quale abdica senza ritegno dormendo in equilibrio precario. Resiste paziente alla lettura dell’articolo dell’Hollywood Reporter che scorre sull’I Pad del suo scopritore, giura di non voler più pensare agli incassi: “Esiste un limite, tra un po’ finiscono gli italiani e chiamiamo direttamente i riservisti dall’estero” e dopo aver disinnescato l’elogio di Variety: “Se lo leggo dopo non crolla la terra”, raggiunta la pianura, crolla lui. Senza appoggiare la testa. Senza aprire mai gli occhi. Il sole cade. La casa è a tre ore, cinque sigarette, un paio di piazzole di sosta. L’extraterrestre torna nell’astronave. Moglie, figlia. Pace. Mariangela. Gaia. Capurso. Telefono. Casa.