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 2013  novembre 24 Domenica calendario

I 50 ANNI DI ADELPHI E DELLE SUE ICONE


È festa in casa Adelphi, la casa editrice compie cinquant’anni e ha vinto molte sfide. A partire da quella della qualità che si propone e si impone. Insomma, l’azzardo del libro che deve innanzitutto agire su chi lo scopre (o lo riscopre), lo lancia e lo valorizza. E subito dopo sul pubblico che lo accoglie. Già dall’inizio l’intento era chiaro. Non dovevano esserci aree, filoni, percorsi privilegiati. Meno che mai un sigillo ideologico, un intento didascalico, quali, nel 1963, contrassegnavano l’editoria culturalmente egemone, a partire da Einaudi.
Doveva esserci il piacere del libro. Diciamo meglio: il piacere del libro di rango, appartenesse al passato più remoto, come un antico codice religioso, un camminamento iniziatico, un viaggio tra i simboli; oppure fosse, che so, uno scavo nella "nostalgia" mitteleuropea, un’investigazione nella coscienza e nel suo sottosuolo, al fuori dalle consuete coordinate freudiane o junghiane, un romanzo che nessun altro avrebbe pubblicato perché fuori da ogni appartenza "corretta", un autore dimenticato che meritasse di essere riscoperto, uno scrittore magari noto ma di cui potesse essere evidenziato un aspetto che si ignorava. Adelphi festeggia con una sorta di almanacco-catalogo a futura memoria - "1963-2013. Adelphiana", pp. 783, euro 35 - dotato di un vasto corredo di fonti, recensioni, inediti, materiali illustrativi: un libro "plurale" che fa subito pensare a tre alfieri dell’immaginazione plurale, non a caso icone adelphiane, come Jorge Luis Borges, Fernando Pessoa ed Elémire Zolla. Sfogliarlo vale un bel viaggio. A partire dalla "partenza", il 1963, per l’appunto, quando Adelphi propone classici come "Fede e Bellezza" di Niccolò Tommaseo, il primo volume delle "Novelle" di Gottfried Keller, il "Robinson Crusoe" di Daniel Defoe e le "Opere" di Georg Büchner. Letture importanti, certo, ma nulla che avesse il sapore della sfida, se non nelle particolare qualità editoriale dei testi e degli apparati critici. L’anno dopo, però, Adelphi, con la pubblicazione di "Aurora" e dei "Frammenti postumi" (1879-1881) di Friedrich Nietzsche, inaugura la pubblicazione delle "Opere complete" del "padre" di Zarathustra, e questa è una "provocazione". Perché, se è vero che le "Opere" sono affidate alla cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, e cioè a fior di filologi impegnati a restituire il complesso profilo di Nietzsche, al di fuori di tutte le deformazioni e di ogni possibile "vulgata", è altrettanto vero che in quegli anni l’immagine del Nietzsche "profeta del Terzo Reich", o quanto meno banditore di un "verbo" pericolosamente antidemocratico, ha una sua indubbia consistenza anche ai "piani alti" della filosofia. Grazie soprattutto all’anatema scagliato dal marxista György Lukács contro tutti gli "irrazionalisti" nel saggio "La distruzione della ragione", non a caso pubblicato, nel 1959, da un editore "politicamente corretto" come Einaudi. E, per molti versi, Adelphi è l’anti-Einaudi. Non perché sia "di destra", intendiamoci, ma perché nella sua cerca dell’intelligenza non conosce alcuna barriera di opportunità. È anche vero che, "inopportuna" com’è, finisce con lo smuovere le acque, col farle ribollire: si pensi a quanti saggi su Nietzsche, riveduto, corretto, riletto, reinterpretato nei modi più svariati, hanno preso le mosse dalla memorabile edizione critica di Colli e Montinari.
Adelphi, in nome del buon diritto a conoscere il Novecento anche nei suoi percorsi estremi, non ha arretrato nemmeno di fronte agli alfieri della "Rivoluzione conservatrice" germanica. E cioè a quegli intellettuali che, a vario titolo e ognuno, poi, col suo speciale "destino" all’ombra della svastika, seminarono suggestioni care alla destra radicale: si pensi al Thomas Mann (prenazista?) delle "Considerazioni di un impolitico", a Gottfried Benn, a Carl Schmitt, ad Ernest Jünger, a Ludwig Klages, a Martin Heidegger. Si può scrivere la storia della cultura del Novecento, ignorandoli o demonizzandoli? Ovviamente no, così come non si possono ignorare i nostalgici dell’"Austria Felix" o comunque scarsamente compatibili con la "modernità", come Joseph Roth e Karl Kraus, Alexander Lernet-Holenia e Stefan Zweig, cui Adelphi ha sempre dato ampio spazio. Lo stesso vale per René Guénon, uno dei più grandi studiosi di esoterismo del secolo scorso, per anni noto quasi esclusivamente nei cenacoli e nei ristretti circuiti editoriali della destra radicale, che Adelphi decise di pubblicare, ignorando la "fatwa" laica, democratica e progressista, scagliata contro il pensatore. Ed il rumeno-parigino Émile Cioran, autore di aforismi incendiari e fortemente sospettato di nihilismo reazionario, non è forse diventato un autore "di culto" dopo lo sdoganamento operato da Adelphi?
È vero: Cioran continua ad essere autore caro a pochi eletti. Al pari di altri spiriti ebbri e visionari: Carlo Michelstaedter, Cristina Campo, Guido Ceronetti, Manlio Sgalambro, Nicolas Gomez Davila. Oppure, in campo letterario, gli "aristocratici" Savinio, Gadda, Morselli, Satta, Landolfi, Flaiano, Manganelli. E lo stesso Malaparte, così bello, dannato e straripante, che Calasso da qualche anno sta riscoprendo come uno dei più significativi "testimoni del Novecento". Ma Adelphi si può permettere questa ed altre "nicchie"(pensiamo a quelle che accolgono testi filosofici, sapienziali, religiosi, mistici ecc.). Visti i tanti best-seller di cui può menar vanto: dai romanzi di Simenon (non solo Maigret…) a quelli di Milan Kundera (su tutti il "mitico" "L’insostenibile leggerezza dell’essere"), alle "rivelazioni" Irène Némirosvky e Sandor Marai.
Mario Bernardi Guardi