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 2013  novembre 24 Domenica calendario

LETTERATURA DEGLI SLUM (E OGGETTI COME RACCONTI)


«I ricchi combattono per cose stupide, perché i poveri non dovrebbero fare lo stesso?». È la constatazione in sé ovvia e proprio per questo banalmente vera con cui una donna di Annawadi — il piccolo slum adiacente all’aeroporto di Mumbay: di là dal muro l’assalto all’oasi dei dutyfree, di qua tremila disperati a contendersi un pezzo di lamiera — chiosa un passaggio di Belle per sempre : romanzo-reportage del già premio Pulitzer Katherine Boo, alla quale è valso il Book Awards della critica americana, tradotto l’anno scorso in Italia da Piemme. Una storia e una scrittura calate tra uomini e topi , entrambe «potenti come solo la verità della miseria sa essere», hanno detto. Il punto è che, tirandola un po’ ma nemmeno poi tanto, il fenomeno è sempre meno isolato e c’è già chi ha messo in giro una battuta specifica: dopo le famose tre «S» garanzia di forza per qualsiasi soggetto narrativo — soldi, sangue, sesso — forse da un po’ di tempo ne sta arrivando una quarta. Slum, appunto.
Che la povertà estrema rappresenti un «materiale» letterario e artistico di prepotente efficacia non è naturalmente una scoperta di oggi, Charles Dickens e le fogne dei Miserabili sono nati molto prima di quelle che oggi chiamiamo favelas, bidonville, baraccopoli, township e sinonimi vari: e da un punto di vista iconografico, in fondo, persino l’Inferno dantesco è talmente assimilabile a uno slum che dovendo riassumere in una parola la quotidianità di quest’ultimo non c’è termine — probabilmente — più calzante di «bolgia».
La novità forse, sottile ma non del tutto irrilevante, è un’altra. E forse riguarda anche la letteratura, come si è detto: il successo di Shantaram dell’australiano Gregory David Roberts, odissea in cui la sopravvivenza tra l’umanità più misera dell’India rappresenta una delle parti fondamentali dell’avventura, risale ormai a qualche anno fa e il libro continua a mietere lettori. Ma per provare a spiegarla, quella novità sottile, può venire meglio in aiuto una mostra attualmente in corso alla Triennale di Milano.
Si intitola «Made in Slums». E lo slum in questione è quello di Mathare, uno dei 199 di Nairobi. E il più grande del Kenya. Per avere un’idea: se a chi ha letto Belle per sempre hanno fatto impressione i tremila dannati di Annawadi, qui stiamo parlando di mezzo milione di persone schiacciate in poco più di un chilometro quadrato. La mostra, curata da Fulvio Irace, raccoglie una serie di oggetti di uso quotidiano realizzati dagli abitanti di quel posto con quel che hanno a disposizione. Un fornello ricavato da una bombola di gas, sandali intagliati in pezzi di copertone, pentole derivate dal fondo in alluminio delle auto da safari, lampade a olio che prima erano bombole di insetticida, trappole per topi che prima erano pezzi di rete in ferro. Ma anche strumenti musicali, vestiti e manichini per esporli, attrezzi per desquamare il pesce, giocattoli per bambini fatti fondendo plastica raccolta tra i rifiuti. Cose fatte con quel che si ha, ma comunque «in una logica — sottolinea il curatore — di produzione seriale» di volta in volta reinventata: espressione di una «economia interna nata per soddisfare i bisogni di persone che non hanno accesso a beni di consumo proposti dal mercato» e tuttavia emblema appunto di una piccola, minuscola economia di mercato a sua volta. Piccola fino a un certo punto, in verità, visto che riguarda mezzo milione di individui.
La particolarità è che l’interesse della mostra non è di tipo socio-antropologico. O meglio, quella è forse una conseguenza. La particolarità sta nel fatto di essere stata allestita non in un centro missionario, ma in un contesto quale la Triennale. Una faccenda di «arte», dove l’oggetto di uso quotidiano finisce per assumere forma e significato autonomi — e proprio per questo più forti — a causa del contesto in cui viene collocato: qualcosa come la Fontana di Duchamp, orinatoio sradicato dal suo posto e dilatato in qualcosa di «altro», una volta divenuto oggetto di esposizione. È un altro linguaggio. Ma il risultato è che fa ridiventare (o almeno ci prova) interessante, sorprendente, straniante, una realtà talmente riproposta ai nostri occhi di oggi da rischiare di essere altrimenti sempre più invisibile.
«Design dello scarto e dell’affollamento», è il sottotitolo della mostra. «Oggi — scrive Silvana Annicchiarico nell’introduzione — l’irruenza della globalizzazione ci obbliga a fare i conti con un design che diventa professione di massa non solo nei Paesi occidentali ricchi». Cento reportage giornalistici potranno e dovranno ancora raccontare, come già fanno da molto tempo, quanta parte di pianeta vive accalcata tra le lamiere delle bidonville. Ma l’arte e la letteratura, in questo modo specifico, hanno appena cominciato a farlo. Ed è una strada che può portare lontano.