Stefano Bucci, La Lettura, Corriere della Sera 24/11/2013, 24 novembre 2013
SCUSATE, L’ ARTISTA NON C’È
Chiedo scusa, l’artista non c’è. Anzi, «non c’è mai stato». D’altra parte per Giulio Paolini, definito tra i principali esponenti dell’arte (concettuale e no) del nostro tempo, «l’artista non esiste, ma piuttosto esiste un testimone oculare di un flusso creativo universale». O, in alternativa, si può trattare «di un semplice spettatore che non ha niente da dichiarare né da mettere al mondo, che attende l’alzata del sipario, l’inizio o la fine della rappresentazione».
Lo ribadisce, quasi con l’aria di voler chiedere scusa, anche a «la Lettura», alla vigilia della mostra curata da Bartolomeo Pietromarchi che si inaugura al Macro di Roma giovedì prossimo (28 novembre): quattordici opere (tredici realizzate tra il 1987 e il 2013 più un inedito site-specific pensato per il museo romano), tutte giocate «sul tema della presenza-assenza dell’artista» (dall’autoritratto Delfo IV a Big Bang , da Immacolata concezione a Contemplator enim , da Photofinish a Black out ), che dal Macro — la mostra chiude il 9 marzo 2014 — passeranno poi, nel luglio 2014, alla Whitechapel Gallery di Londra. «Giulio Paolini. Essere o non essere» è, tanto per ribadire, il titolo della mostra («Un’antologia, non un’antologica» chiarisce immediatamente Paolini) e, L’autore che credeva di esistere (sipario: buio in sala) , quello dell’inedito ispirato al libro che Paolini aveva pubblicato nel 2012 per Johan & Levi Editore.
Nel suo studio torinese di via Po («Un magazzino, non un loft come si dice adesso»), in una giornata grigia e mentre fuori sfilano i lavoratori in corteo, Giulio Paolini sceglie di raccontarsi, dopo qualche tentativo di negarsi («Cosa mi racconta?» chiede all’intervistatore). Sembrerebbe dunque una battaglia persa, ma poi questo signore dai capelli bianchi e lo sguardo acuto (nascosto dietro un paio di occhiali rotondi), le mani curate e solo un filo di barba lunga, tutto vestito con i toni dell’autunno comincia a parlare. Senza tanti schermi (e lo farà ancora di più davanti a un piatto di orecchiette con le cime di rape e un bicchiere di vino rosso nella piccola trattoria pugliese a fianco dello studio anche se purtroppo «non ama il cioccolato»). Si parte dalla scelta del Macro piuttosto che del Maxxi. «Non amo l’espressività esagerata di Zaha Hadid come non amo quella di Gehry — dice Paolini — e mi riesce difficile varcare anche fisicamente la soglia del Maxxi, un’architettura proibitiva, impraticabile, presuntuosa, inaccettabile per un artista. Eppure ho un buon rapporto con Anna Mattirolo, direttrice del museo d’arte. Ma questi contenitori così spettacolari finiscono per soffocare il contenuto. Insomma, è un’architettura che si mette inutilmente in competizione». Meglio allora... «Il Macro perché c’è analogia, o direi piuttosto simpatia, con l’arte contemporanea. O meglio l’Arsenale della Biennale, con i suoi spazi tutti da scoprire. O il Castello di Rivoli, un contenitore che, con grande modestia, si mette alla pari con le opere». Ci sarà pure qualche architetto che ama di più: «Potrei salvare Jean Nouvel, ma per ragioni affettive».
A (quasi) cinquant’anni dalla sua prima personale (a Roma, nel 1964), racconta i suoi esordi: «Da giovane sono sempre stato un visitatore attento e devoto di mostre e musei. E poi, a Torino negli anni Sessanta c’era davvero un’offerta incredibile. Mi ricordo ancora una bellissima mostra sull’arte moderna tra Francia e Italia e una su Osvaldo Licini. Ma ho avuto anche la fortuna di essere stato un grande frequentatore dell’Einaudi, quella di Giulio Einaudi che faceva disegnare le copertine dei libri a Bruno Munari». Eppure, aggiunge Paolini (nato a Genova nel 1940, ma praticamente da sempre torinese) «se la mia famiglia non mi avesse spinto a studiare grafica (mio padre era rappresentante di inchiostri), sarei ancora qui a dipingere dal vero» (quel divano e quelle sue due poltrone che hanno fatto da sfondo a tanti suoi lavori arrivano proprio dalla sua famiglia). Nessun rimpianto? «No, tutt’altro. Quella formazione mi ha dato più stimoli». E oggi? «Ci sono troppe mostre, che senso ha esporre se oramai possono farlo tutti e dappertutto? La mia prima mostra ho dovuto sudarmela».
Questa volta non si parla tanto delle sue opere: collages dentro teche di plexiglas, installazioni con un tavolo da lavoro e una quadreria oppure con un paio di scarpe, incisioni, disegni a matita e tante, tantissime fotografie più o meno ritoccate. E nemmeno poi tanto della sua idea di (non) artista. Ma, in qualche modo, del privato, un privato molto «piccolo»: il tragitto quotidiano casa-studio-casa, un tragitto molto breve (da via Po alla contigua piazza Vittorio); un universo familiare molto ristretto (Paolini e la moglie Anna); senza assistenti in studio, due grandi tavoli moderni su cui si progettano le installazioni («Non riesco a fare due progetti contemporaneamente sullo stesso tavolo, devo tenerli lontani»), una scrivania da ufficio degli anni Trenta con il piano ingombro di matite, una musica in sottofondo. Cosa ama ascoltare? «Soprattutto Bach e Mozart», non tanto gli «sproloqui di Berlioz» (ma per Paolini bellissima è stata anche l’esperienza di mise en scène delle Walchirie e di Parsifal al San Carlo di Napoli, «il più bel teatro del mondo, credo»).
Paolini il grande concettuale, l’artista che rinnega l’arte, dichiara di amare «Raffaello con la sua perfezione quasi rileccata, Las Meninas di Diego Velázquez («un quadro unico»), certe Madonne del Bellini dove il Bambino tiene i piedi poggiati sulla balaustra («un modo per annullare le distanze tra artista e spettatore»), l’Imbarco per Citera di Watteau («un bel quadro, ma soprattutto mi piace l’idea di questi vacanzieri in partenza per il Paradiso»). E soprattutto Duchamp e de Chirico («Il suo vero capolavoro è stata la sua vita»), che ha voluto ritrarre anche lui vicino al divano di famiglia, Tempus Tacendi (2012). Nessuno, invece, «tra i viventi». Scusi, Hirst e le altre superstar delle aste? «Vittime del sistema». E com’è stata l’esperienza del Padiglione italiano di quest’ultima Biennale di Venezia, dove il curatore, ancora una volta Pietromarchi, l’ha messa idealmente a confronto con Marco Tirelli? «Un’esperienza riuscita».
Ma Giulio Paolini è anche l’uomo delle parole (per definire certe esperienze artistiche ormai tramontate usa, ad esempio, la parola «catacombale»). E degli scrittori. Con de Chirico, sul solito divano, ha collocato tra gli altri i suoi grandi amori, da Borges a Calvino: «L’ho conosciuto, era un uomo silenzioso, che però ha anche amato il mio lavoro, scrivendo per me pagine bellissime». Dove Calvino citava e lodava «la grande ambizione e la grande modestia» del pittore, Paolini appunto, che aveva esposto «una riproduzione fotografica d’un ritratto di Lorenzo Lotto», intitolandola Giovane che guarda Lorenzo Lotto e trasformando gli spettatori «in altrettanti Lotto, a loro volta fissati dalle pupille della fotografia, del quadro, del fantasma, del giovane». Non a caso, come per un omaggio a Calvino, si intitola Palomar la luminaria natalizia pensata per via Po, che Paolini ha voluto regalare a Torino e allo scrittore e che da qualche giorno è tornata in attività.
A questo punto però, la malinconia di Paolini, quella stessa che segna sempre il suo sguardo, sembra all’improvviso farsi più evidente: «La moglie e la figlia di Calvino mi avevano chiesto di progettare la sua tomba nel cimitero di Castiglione della Pescaia, ma poi, all’epoca, mi sono fatto prendere da tanti altri inutili impegni e ho consegnato i disegni troppo tardi. Sono rimasti solo quelli». Ma se davvero l’artista non esiste («Chi firma un quadro o un’opera è un abusivo»), cosa ne fa Paolini dei suoi lavori? «Li tengo tutti nel magazzino di Gondrand — dice tornando a sorridere —, perché all’occasione è certamente più facile ritrovarli».