Annamaria Testa, Il Sole 24 Ore 24/11/2013, 24 novembre 2013
UN BRAND CHIAMATO DANTE
Un motivo in apparenza marginale, ma in realtà non così irrilevante del radicarsi della figura di Dante nell’immaginario collettivo sta proprio nel suo essere sempre e perfettamente riconoscibile quando viene rappresentato. L’abito e il copricapo rossi, l’espressione severa, il gran naso: bastano pochi tratti, e Dante è Dante. È come se tutti i pittori che lo ritraggono avessero, nei secoli, lavorato sotto lo stretto controllo di un occhiutissimo ufficio marketing, attento a impedire qualsiasi minuscola deviazione dalle caratteristiche stabilite in una ideale Bibbia del Marchio. Insomma: se Dante fosse un brand (e stiamo parlando di un brand con una storia plurisecolare), potrebbe vantare una coerenza di segni che neanche la Coca Cola. La stessa cosa non capita con nessun altro personaggio eminente, e nemmeno con Leonardo o con Shakespeare. Non sono segni altrettanto forti né la gran barba bianca del primo (un attributo condiviso da troppi: dal Dio creatore della Cappella Sistina a Darwin, ma anche da Babbo Natale a Mago Merlino a Gandalf) né l’ombra di barba e baffi e l’elisabettiano colletto di pizzo del secondo, che nei ritratti può, per esempio, essere confuso con Cervantes. Insomma: non solo Dante è Dante, ma lo si riconosce al primo sguardo e non lo si può confondere con nessun altro. Per questo è così facile evocarlo nei contesti più diversi, a proposito e, qualche volta, a sproposito. Dante è un fumetto già a metà del secolo scorso (L’Inferno di Topolino, numeri 7/12, tra ottobre 1949 e marzo 1950). Dal 2010 è perfino un videogioco horror-gotico per Playstation3 e Xbox, ispirato assai alla lontana alla Commedia e lanciato con un video trailer e una complessa operazione di guerrilla marketing. Da oltre cent’anni Dante è un olio, anzi (come recita il sito dell’azienda) è l’olio che parla italiano. L’oleificio Costa che lo produce, fondato a metà Ottocento, comincia a esportare in Nord e Sud America nel 1898 ma, ahimé, laggiù l’azienda viene scambiata per portoghese: l’idea di dare all’olio esportato il nome Dante nasce per offrire agli italiani un prodotto che, nell’immaginario collettivo, richiamasse la patria e che – nelle intenzioni di Giacomo Costa – venisse associato direttamente all’Italia, proprio come il Sommo Poeta. La scelta è così felice che gli spagnoli subito dopo lanciano l’olio "Beatrice". Oggi si chiamano Dante anche diversi vini, non tutti prodotti in Italia (trovo perfino un Beso de Dante argentino), un’azienda di pasta alimentare surgelata (mi auguro che non useranno mai lo slogan «Dante al dente»), una quantità di ristoranti non necessariamente con cucina italiana. E molto altro.
Dante entra da protagonista (anzi, da testimonial) anche nella pubblicità, ma non in quelle dell’omonimo olio, che già appare nei primi Caroselli ma viene promosso da Peppino De Filippo, a cui seguiranno cartoon di Stanlio e Ollio (testo del jingle: il segreto più importante è l’olioDante…) e ancora dopo da Paolo Panelli e Bice Valori.
Assai controverso lo spot televisivo uscito nel 2009 per una carta igienica multistrato: un frullato di luoghi comuni che avremmo potuto serenamente risparmiarci. Nello spot il poeta ha appena finito la sua opera (lo sappiamo perché ripete tra sé l’ultimo verso del Paradiso), Beatrice commenta «bella codesta commedia, Dante, divina… ma un sarà un tantino lunga?» e Dante la rassicura: per scriverla gli è bastato meno di un rotolo. Lo spot si segnala anche per un errore di data: l’immagine d’esordio dice "Firenze, 1308, casa di Dante". Ma in quell’anno Dante non è più a Firenze, né ha ancora terminato la Commedia.
Ma, forse, il pezzo di pubblicità in cui Dante appare nel modo più pertinente è un bel manifesto per le macchine da scrivere Olivetti, datato 1912 e disegnato da Teodoro Wolf Ferrari. A questo, nel 1921, ne segue un altro: Se i nostri vecchi potessero vedere la macchina da scrivere Olivetti griderebbero al miracolo!