Alvar González-Palacios, Il Sole 24 Ore 24/11/2013, 24 novembre 2013
VELÁZQUEZ PINTOR DEI PARENTI DEL RE
1650-1660: la decade occupa gli ultimi anni della vita di Diego Velázquez, dal suo ritorno dal l’Italia alla morte avvenuta all’improvviso a Madrid il 6 agosto, non molti mesi dopo la cerimonia nella Isla de los Faisanes sul fiume che divide la Spagna dalla Francia. Era stato un suo trionfo personale: il più grande pittore allora vivente aveva personalmente inscenato la solenne consegna dell’Infanta Maria Teresa allo sposo, Luigi XIV. Esiste qualche testimonianza visuale di quella straordinaria occasione in cui si vedono alcuni membri della corte di Filippo IV, neri come corvi, accanto allo scoppio di nastri e piume cremisi del drappello del Re Sole. Le cronache dell’epoca ricordano addirittura la bella presenza e l’eleganza del pittore che finalmente, superata forse con qualche aiuto la sua limpieza de sangre, aveva ottenuto dal Re il titolo di Cavaliere di Santiago.
Per parlare di Velázquez bisogna parlare di Filippo IV: si conobbero nel 1623, quando il primo aveva ventiquattro anni e il secondo diciotto: non appena ne ebbe terminato il ritratto, l’artista divenne il pittore di corte. Ma Velázquez non volle essere solo il pittore del re, bensì un suo gentiluomo che lavorava non per denaro ma per devozione. Voleva essere un hidalgo, un nobile. Quando il papa Innocenzo X – di cui fece il superbo ritratto, ancora oggi a Roma – gli inviò una collana d’oro lui la respinse dicendo che non era un artigiano ma un servitore del re a cui obbediva in ogni sua richiesta.
Nel suo ultimo decennio di vita Velázquez dipinse il suo capolavoro, Las Meninas: non è esposto nelle sale della mostra che si tiene in questi giorni al Prado ma lo si trova a qualche metro di distanza. Le opere presentate non sono molte ma sarebbe impossibile averne di più. È l’apogeo della sua arte iniziata a Siviglia come allievo di un buon maestro, Francisco Pacheco, di cui sposò la figlia. Godette il favore dei suoi conterranei e immediatamente, come si è accennato, la protezione reale. Il suo modo di dipingere è per grazia ricevuta un inesorabile perfezionamento di se stesso. Resta impossibile spiegare in cosa consista la sua grandezza tanto essa appare un fenomeno naturale. Nei suoi quadri i volumi si compongono da soli e i colori, parchi e molto attenti all’equilibrio dell’insieme, costruiscono le figure in modo quasi casuale. Uno dei più grandi ingegni della sua epoca, Francisco de Quevedo, definiva il modo di dipingere di Velázquez come manchas distantes e infatti se ci si avvicina accade quel che capita coi dipinti di Tiziano: quelle manchas, quelle macchie, sono un brulichio di luce e di colore non del tutto comprensibile che prende vita appena ci si allontana leggermente. Ciò, per intenderci, è quel che ha cercato di imitare la pittura del pieno Ottocento dopo Manet. Nel nostro uomo, però, non sorprende solo il modo di dipingere ma l’ impassibilità, la capacità di non sovrapporre mai quello pensa a quello che vede, presentando le cose quasi fossero vere, ancora in atto.
La presente rassegna diventa lo specchio del Re e della sua famiglia. Non aleggiava l’allegria nell’Alcázar ma un’eterna malinconia aumentata dalla scomparsa in giovanissima età dei vari eredi reali. Fra questi il Principe Felipe Próspero che era la sola speranza di continuità della dinastia e che invece visse solo dal 1657 al 1661: è il pallido bambino in uno degli ultimi quadri di Velázquez (conservato a Vienna). Unica nota vivente di quella tela è la bestiola che guarda lo spettatore accanto al patetico manichino coperto di amuleti che a poco servirono. A quanto pare, e il fatto non manca di curiosità, fu il papa a inviare quei gioiellini apotropaici che sembra sentir tintinnare in quell’aura ovattata di velluti e di sete rosse. L’unica creatura allegra della famiglia era l’Infanta Margarita, prima figlia di un matrimonio fra doppi cugini, adorata da tutti a cominciare dal padre che la definiva la «sua famosa buffona». Seguiamo oggi il suo aspetto squisito in più quadri di Velázquez che ne testimoniano i primi otto anni di vita. Tutti e tre si trovano a Vienna: il primo in rosa e azzurro, il secondo in bianco e rosso, il terzo in azzurro e argento. In tutti le stesse gote paffute, la stessa capigliatura bionda, la stessa bocca carnosa, gli stessi occhi cerchiati. La conosciamo anche noi quale figura centrale de Las Meninas, come appariva a sei anni nel 1656 ed era la sola erede del regno. Non è dir poco, forse nessun’altra creatura ha mai potuto vantare tali e tanti ritratti. A questi si aggiungeranno ancora altre due effigi indimenticabili. La prima non è di Velázquez, come si è ritenuto per un paio di secoli, perché quando fu dipinta Velázquez non era più; si tratta di una tela che la raffigura in rosa e argento, con un fazzoletto in una mano e una rosa nell’altra, opera del miglior allievo, nonché genero, del maestro, Juan Bautista Martínez del Mazo. Per tutti è apparsa l’immagine più rappresentativa di Velázquez forse perché ne esasperava le qualità ma a ben guardare (come chiarì nel 1963 un critico sagace, J. López Rey) i particolari sono più preziosi che veri, più decorativi che belli. La seconda immagine del l’Infanta a cui accennavo la rappresenta vestita a lutto, quasi certamente per la morte del padre. Anch’essa è di mano di Mazo – notevole pittore il cui unico difetto fu di essere allievo di un uomo infinitamente più grande di lui.
La mostra si chiude con un post mortem e include infatti solo le effigi dei sopravvissuti: quelle della Regina vedova, Mariana d’Austria, e dell’unico maschio superstite di Filippo IV, Carlo II, che nacque sotto una cattiva stella nel 1661. In lui le caratteristiche fisiche degli Asburgo diventano caricaturali al punto che venne chiamato el hecizado, lo stregato. La sua morte segnò la fine della dinastia e l’inizio della guerra di successione di Spagna che portò al trono un pronipote di Filippo IV, discendente da quella Infanta che aveva sposato il Re Sole quarant’anni prima, nell’Isola dei fagiani. Il pittore a cui toccarono questi ultimi quadri fu Juan Carreño de Miranda (Mazo era morto nel 1667). Anche Carreño fu un abilissimo artista, ma niente di più.
Il catalogo della mostra è ben curato e si sofferma sui problemi posti dalla bottega del pittore e dalle non poche varianti eseguite per il Re e per la sua famiglia. Si prendono anche in considerazione i contatti di Velázquez con la corte di Innocenzo X e alcuni personaggi romani dei quali si espongono i ritratti. Viene a mente, per finire, una considerazione di Ortega y Gasset: «la pittura italiana inizia con Giotto e muore gloriosamente con Velázquez».