Vittorio Giacopini, Il Sole 24 Ore 24/11/2013, 24 novembre 2013
PENSARE PER IMMAGINI
Un libro sotto forma di album secondo il concetto stesso di Ludwig Wittgenstein, uno Schreibbuch dove immagini e pensieri, icone e eventi, procedono «da un soggetto all’altro secondo una successione naturale e continua». «Schizzi paesaggistici»che scorrono su piani obliqui e sfalsati girovagando sino a intrecciarsi «In una fitta rete di relazioni» (o a perdersi nel groviglio più assoluto). La biografia per immagini di Michael Nedo è un’impresa eccezionale anche per questo: la vita – inafferrabile – di uno dei più ostici e magnetici pensatori del Novecento diventa un riscontro puntuale al suo teorizzare e, insieme, fonte ambigua di fragili certezze, brusche smentite. Lui stesso l’aveva intuito, controvoglia: «Qualcosa in me mi dice che dovrei scrivere una biografia. Vorrei una buona volta chiarire la mia vita…non tanto per giustificarla quanto per amore della chiarezza e della verità».
Chiarezza e verità. Più facile a dirsi che farsi, naturalmente, e questo libro stupendo colma un vuoto. È un volume da leggere e da guardare, anche a casaccio, lasciando che un ordine si imponga, a modo suo. Bisogna solo sfogliare, con attenzione. Farsi catturare da un clima, da una malia.
Vienna, la Storia, la filosofia e la logica, l’arte, il Mondo. Dentro questa biografia per immagini ognuno può scegliere le strade che preferisce, i propri percorsi, e un buono spunto è seguire il tema delle case, dell’abitare (applicando il metodo di Benjamin: cercare le tracce degli uomini, i reperti).
Abitare e star di casa, e sentirsi sempre e ovunque fuori posto. Lo vediamo – e lo leggiamo: è un chiodo fisso. Il suo primo ricordo sono – forse – le scale del palazzo di Allegasee, una prigione, quell’ampio scalone in lucido marmo dalle venature striate, alabastrine. La reggia di famiglia, spazio chiuso. È li che inizia a cercarsi (e a sabotarsi); e da lì che si ostina a fuggire, per inventarsi. A volte, la sera, la musica lo strappava alle sue fantasie e rotolava giù dal letto, a piedi nudi, calamitato dall’algebra di un richiamo misterioso. Calava giù da basso, lentamente. Nella sala della musica, un’unica fioca candela tremolante, e, oltre la grande vetrata della veranda, le cupe sagome scheletriche degli alberi spogli e freddi nel giardino. Chino sul pianoforte, suo fratello pestava sui tasti rapito dalla frenesia di un’ossessione. Fuori c’era la notte, un’afflizione. Vienna li circondava come una fitta trama di rassegnato decoro, di cerimonie; la città era una ragnatela di obbedienze.
Ma è solo una scena primaria, da cancellare. Lo ritroviamo in Inghilterra, poi in Irlanda, e già vive di contrasti, opposizione. A Cambridge il suo studio era stato una stanza ridicola, neogotica, con le finestre a bifora e una scrivania di pesante quercia intarsiata col piano di cristallo, proprio pacchiano, ma ormai aveva scelto l’Irlanda, un altro ritmo, e poteva semplificare, fare il vuoto. Il cottage di Rosro si affacciava sulla scogliera, quasi a strapiombo su un porticciolo di piccole case spoglie, colorate. Era stato una postazione della guardia costiera, quindi un arsenale dell’Ira, poi un rudere malandato, poi una casa. Adesso era la sua discutibile tana, una trincea. Nella sua cella da monaco un solo piano di grezzo legno chiaro e due scaffali con pochi libri tascabili, una seggiola malandata, qualche bianca tazza in ceramica, una lampadina nuda, i suoi quaderni (quei famosi quaderni rosso, blu, marrone, con la copertina dura, cartonata).
Ma cercava sempre nuovi paesaggi, e altre dimore. Per esempio il fiordo di Skjolden, bassa Norvegia, un labirinto di gelide acque profonde, anse, insenature, una cupa lingua di mare già dimentico di sé stesso, fatto fiume. Aveva inseguito lo spazio protetto di un posto che non è un posto, di un rifugio, e il buffo è che c’era pure riuscito, curiosamente. Sfuggire alla società (a Vienna o a Cambridge), farsi di nebbia. Nessuna evasione è impossibile, vietata. Prima aveva sognato un habitat irreale, l’utopia di un luogo per meditare, un buen retiro, poi s’era adattato a un destino di perfetta solitudine, a una ripulsa. Qui voleva lavorare, duramente, ma qui, d’altronde, poteva anche non fare proprio più niente, lasciarsi vivere. Voleva chiamarla casa, sentirsi a casa. C’è una foto commovente di questa sua baracca di legno tra gli abeti impiccata sull’erta di una ripida scogliera. Il tetto è acuto e spiovente, con le tegole, e ci sono due finestre, un porticato, la sporgenza di un tozzo e basso camino in mattoncini. Le pareti sono nude assi di legno sverniciate.
L’altra casa di Wittgenstein – quella che resta – la costruisce a Vienna, nel cuore di questa città che non sopporta. Il palazzo di sua sorella in Kundmangasse è il contrario della villa di Allegasse. L’ornamento è delitto, dice Adolf Loos, e Ludwig lo prende alla lettera, inflessibile. Il basso muretto esterno, i tigli, i platani, la casa del custode e del giardiniere sono una barriera totale, separazione. La casa è fuori dalla città, in un altrove; nasce in una cesura, dentro uno strappo. La struttura è una semplice sequenza di rigorosi cubi, bianco calce, che si incastrano l’uno dentro l’altro, astratti blocchi. Dall’esterno si coglie soltanto la perfetta simmetria delle finestre, l’organizzazione severa degli spazi. Qui è tutto geometria, angoli acuti, controllati dislivelli, colori pallidi. Bianco e grigio tenuissimo, rari smalti, mobili e infissi in legno di ciliegio, chiaro e grezzo. Tutto è vetrata e luce, trasparenza. Niente quadri alle pareti, niente tappeti. Filosofia che si è congelata in spazio, architettura; una teologia (negativa) del l’abitare.
Case, allora, come posti per vivere, o morire. La sua ultima fotografia è un capolavoro. Ludwig siede su una sedia pieghevole, di tre quarti. Ha i pantaloni scuri e un dolcevita nero con le maniche ripiegate sotto al gomito. Guarda nel vuoto o comunque non guarda in macchina, è già assente. Ha scelto lui quella posa, l’inquadratura. Lo sfondo è perfettamente candido, uniforme, ma l’istantanea non è stata presa in studio da un artista. Tarda primavera del ’50, un giorno di pallido sole opalescente. È a casa di amici e c’è un ospite con la Leica, un norvegese che gli chiede se vuole lasciarsi fare un ritratto. Lui accetta ma solo a patto di venir ripreso di spalle, senza volto, con la schiena rivolta all’obbiettivo. Poi cambia idea e sceglie una posa diversa: questa scena. Quel fondo bianco è un lenzuolo preso dal letto, il suo sudario. «Alla morte – l’aveva scritto nel Tractatus, troppi anni prima – il mondo non si altera, ma cessa». Ma non c’è da aver paura o da agitarsi: «la morte non è evento della vita. La morte non si vive». Semplicemente.