Gianluca Di Donfrancesco, Il Sole 24 Ore 24/11/2013, 24 novembre 2013
MYANMAR, COSÌ NASCE UN NUOVO MERCATO NEL CUORE DELL’ASIA
Si scrive Myanmar, si legge terra di grandi opportunità, ma anche di grandi rischi. Di entusiastico slancio verso la modernità e gelosa difesa della propria identità. Restituito alle mappe della geopolitica e dell’economia mondiale dalla tenacia di Aung San Suu Kyi, il Myanmar vive tra contraddizioni abbaglianti la sua nuova adolescenza. Contrasti che convivono spalla a spalla nella morfologia liquida della sua città simbolo, Yangon: lasciata la bianca e massiccia sede dell’Unione delle camere di commercio, dove il 14 novembre è arrivata tra grandi fasti la Task Force Ue-Myanmar, in una decina di passi si torna indietro di 5 o 6 anni, l’asfalto cede alla terra battuta, tra le baracche di una popolazione che vive con salari di 120 dollari al mese, bambini scalzi che mangiano all’aperto, con la testa in su a guardare i grattacieli appena nati e quelli che spunteranno: distano pochi minuti in auto, ma appartengono a un altro modo.
Prossimo presidente dell’Asean, il Myanmar si scopre al centro degli interessi delle diplomazie economiche mondiali e delle multinazionali che contano. Tutti in fila alle porte di una nazione grande come Regno Unito e Francia messe insieme, che può offrire 62 milioni di abitanti (il 51% sotto i 21 anni), una manodopera tra le meno costose dell’Asia, gemme e pietre preziose, oro, il legname più pregiato del mondo, derrate agricole e risorse ittiche, gas, petrolio, marmo e minerali. La crescita, del 6,5% quest’anno e del 6,8 il prossimo, è una delle più sostenute nella regione.
Tante opportunità, altrettanti rischi. Perché in nessun posto si può costruire come in un Paese privo di infrastrutture. A patto di accettare di aprire cantieri e fabbriche che avranno elettricità a volte solo per 8 ore al giorno e che dovranno dotarsi di generatori autonomi o pozzi per l’acqua, con collegamenti stradali lentissimi, quando esistono.
I grandi gruppi sono già qui, però. A parte i discreti cinesi, giapponesi e sud coreani si stanno muovendo a una velocità impressionante: il marchio Samsung campeggia ovunque a Yangon e domina le nuovissime strade, già intasate di auto giapponesi di seconda mano che sfrecciano davanti alle luci dei negozi di moda appena aperti.
«Siamo attraversando – spiega Tomaso Andreatta, vicepresidente di Eurocham – una prima fase di sviluppo, rapidissima, alla quale ne seguirà una più lenta, meno rischiosa e meno costosa. L’orizzonte temporale da tenere in considerazione è di almeno dieci anni, ma bisogna essere qui se si vuol cogliere l’occasione». Le incognite sono molte: «In occidente diamo per scontata l’acquisizione della democrazia nel Paese, ma non è ancora così. Le elezioni del 2015 saranno un punto di svolta». Il processo di transizione economica avviene in contemporanea con quello politico e nel 2015 il difficile equilibrio trovato tra il Governo dei militari e San Suu Kyi potrebbe rompersi, una prospettiva che la comunità degli affari guarda con preoccupazione, chiedendosi anche se la leader dell’opposizione, considerato un «fantastico sponsor del Paese nel mondo», sarà in grado di governare una fase tanto delicata.
L’Esecutivo ha fatto passi da gigante nel dotarsi di nuove leggi in molti settori, ma queste devono ancora trovare applicazione, a cominciare da quella sugli investimenti esteri. Ha anche avviato zone economiche speciali. Il sistema bancario invece è tutto da costruire e ci vorranno anni, per adesso può servire solo ai pagamenti internazionali, pochissimo per fare credito e per nulla ai risparmiatori. «Mi aspetto uno sviluppo molto rapido – continua Andreatta - di abbigliamento e calzature. L’industria del turismo è in ebollizione ma è tutta da fare. Nei settori chiave, come la telefonia, la concorrenza è così forte da spingere i costi a livelli che richiederanno anni per essere riassorbiti».
Ci sono poi gli ostacoli generati da una popolazione che guarda a occidente, ma a volte è lontanissima dalla mentalità occidentale. Racconta il belga Wim Somers, arrivato a Yangon il 1° maggio per aprire una società di consulenza per imprese: «Supponga di voler fissare appuntamenti per la sua azienda. Molto probabilmente si sentirà rispondere “chiami quando arriva”. Spesso internet non funziona e l’inglese non è così diffuso». I costi, poi, stanno salendo in fretta, perché la domanda è enorme e l’offerta bassa (l’inflazione supera il 7%). A Yangon e Mandali gli spazi per uffici costano da 50 a 90 dollari al metro quadro, «a Bangkok 15 e qui bisogna pagare un anno di anticipo».
Il Paese ha fame di tutto, soprattutto di tecnologia: «Se porti qualcosa che non hanno – spiega Florence Grangerat dello studio legale Audier & Partners – ti spalancano le porte, ma chi entra in competizione con gruppi locali incontri resistenze. La corruzione è un problema, come pure la contraffazione: una legge di tutela arriverà solo a fine anno». Oggi le difese sono ben poche: a Yangon è stato copiato perfino un intero negozio della catena Kfc, da un giorno all’altro.
Tra i gruppi che hanno deciso di muoversi c’è Lotto, che sta lavorando a un accordo con un gruppo taiwanese che ha appena realizzato una fabbrica di calzature sportive. Racconta l’head of operations, Carlo De Carolis: «Presto verificheremo il rispetto dei nostri standard e se l’esito sarà positivo potremo concludere. Questo Paese ha le carte per diventare una potenza industriale nell’area, più di Bangladesh e Cambogia. Non a caso alcuni grandi marchi si stanno spostando qui dalla Cambogia”.
«Le idee possono essere un po’ confuse, ma la volontà c’è», dice Paolo Franchetti, alla cui società di ingegneria il Governo ha chiesto di condividere un piano di investimenti. «Per molti anni – sottolinea Luigi Cuzzolin di Pipex Italia - hanno avuto solo i cinesi come partner e vogliono cambiare, cercano qualità e standard europei. Questo può offrirci una grande chance».
Opportunità e rischi. Anche per i birmani. Che nelle luci dei grattaceli delle corporations vedono possibilità di sviluppo, ma anche lo spettro dell’esasperazione delle diseguaglianze. Ancora una volta si stringono attorno a San Suu Kyi: «A chi vuol investire qui abbiamo molto da dare – ripete la Lady – ma anche molto da chiedere».