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 2013  novembre 24 Domenica calendario

NOI, SOTTO PROCESSO PER UNA FIGLIA CRESCIUTA NELL’UTERO DI UN’ALTRA – [DOSSIER LA MATERNITÀ SURROGATA]


«Eccoci, siamo i mostri...». Lei ha un sorriso ironico quasi disperato. Lui indossa un vestito grigio comprato in un grande magazzino e si guarda alle spalle in continuazione. Albergo davanti alla stazione. Città diversa da quella di residenza. Tre telefonate da un numero anonimo per combinare l’incontro. I mostri sono due genitori di quarant’anni, impiegati pubblici della classe media italiana, andati in India per mettere al mondo la loro bambina con una maternità surrogata. Hanno affittato un utero. Quattro rate trimestrali, 28 mila euro. Ritenevano di aver seguito ogni regola del diritto internazionale con il massimo scrupolo. Ma l’Italia non è convinta. Dopo lunghe indagini, i due genitori sono stati rinviati a giudizio: «Alterazione dello stato civile». Rischiano da 5 a 15 anni di carcere. La procura mette in dubbio l’autenticità del documento che attesta la nascita di Emma. Ecco perché adesso sono così spaventati: «Arriviamo da mesi davvero difficili».
Prima scena, marzo 2009. «Dopo un’operazione, il medico che mi stava curando per un tumore, dice: “Mi dispiace, lei non potrà mai diventare madre”. Erano cinque anni che andavamo avanti con cure e tentativi». Seconda scena, febbraio 2010. Ennesima notte di insonnia. «Alle 2 del mattino, su Rai3, trasmettevano la storia delle famiglie arcobaleno negli Stati Uniti. Non sapevamo niente di maternità surrogata. Per la prima volta abbiamo contemplato quella possibilità».
Ma il vero inizio, forse, è un altro. Succede dopo notti passate sui blog, centinaia di mail scambiate con genitori di mezzo mondo, tre diverse consulenze con avvocati, sentenze di archiviazioni su casi analoghi cercate e imparate a memoria. «Siamo andati a Nuova Delhi come due investigatori - dice lui - abbiamo scoperto un mondo». Clacson, traffico forsennato, vita che sprizzava da tutti i pori, un condensato di umanità. «Siamo rimasti una settimana davanti alla clinica ad immaginare la situazione. Parlavamo con tutti. Mia moglie sa bene l’inglese. Per questo abbiamo scelto l’India, piuttosto che l’Ucraina. La cosa che mi faceva più paura era l’idea di commettere un’azione moralmente sbagliata, qualcosa che potesse nuocere alla salute di un’altra donna. Noi non siamo ricchi occidentali disposti a tutto. Siamo due persone semplici. Due italiani incensurati, che credono fermamente nel rispetto della legalità».
Quando hanno deciso, alla fine, hanno dovuto chiedere un prestito ai genitori di lui, perché i soldi in banca non sarebbero bastati. A novembre 2011 sono partiti per il secondo viaggio. «La sera in cui abbiamo firmato il contratto, siamo tornati in albergo con il cuore in subbuglio. Continuavamo a ripetere: “Dobbiamo stare calmi, calmi, calmi...”». La maternità surrogata è lecita negli Stati Uniti, in Canada, Inghilterra, Israele, Grecia, Belgio, Ucraina, Russia, Georgia. e, appunto, India. Consiste in questo: il padre mette il seme. Viene fecondato in vitro l’ovulo di una donatrice anonima. L’embrione viene impiantato nell’utero della donna che porterà avanti la gravidanza per conto terzi. «Forse qualcuno ha dell’India un’idea sbagliata. La nostra clinica è all’avanguardia. I medici sono di una professionalità straordinaria. Ci hanno chiesto se volessimo una donatrice indiana o caucasica. Abbiamo risposta all’unisono: indiana. Non abbiamo voluto sapere altro». Poi è arrivata Maya. La donna che per nove mesi avrebbe portato in grembo il loro bambino. «Si è presentata in clinica con le due figlie. Ci è piaciuta subito moltissimo. Ventinove anni, dolce, timida. Quando voleva dire sì, scuoteva la testa come quando noi diciamo no. E’ stato bello. Sappiamo che a lei sono andati 7 mila euro, il corrispettivo di quattro anni di un buono stipendio indiano». Lunedì il contratto, mercoledì il tentativo di fecondazione. Domenica il volo di ritorno in Italia, dentro la vita di sempre, senza dire niente a nessuno. La telefonata è arrivata alle tre di notte del quindicesimo giorno. «”Congratulations!”, è la prima cosa che ha detto il medico. L’embrione aveva attecchito. Mi sono sciolta all’istante». Sono seguiti, in ordine sparso e ripetuto: pianti di gioia con i futuri nonni, collegamenti via Skype con Maya, ecografie scambiate da una parte all’altra del mondo, preghiere. Quando è nata Emma, hanno preso quattro mesi di aspettativa, tacendo le vere ragioni con i rispettivi capi. «Il primo mese lo abbiamo trascorso in un residence indiano, pieno di genitori come noi, a preparare biberon. L’esame del Dna ha accertato che il padre naturale ero proprio io. Emma, del resto, è la mia fotocopia. Intanto abbiamo fatto tutta la trafila per ottenere il passaporto provvisorio, rilasciato dal Ministero per gli Affari Esteri indiano». Raccontano la prima parte del viaggio come una gioia, il ritorno a casa come un incubo. In Italia incominciano i sospetti, fin dall’aeroporto. «Tenevo Emma in braccio e guardavo terrorizzato il poliziotto, preoccupato che andasse a chiamare il suo superiore». Le ambasciate sono obbligate a segnalare ogni nascita all’anagrafe italiana. Nel giro di un mese i genitori di Emma sono stati convocati in procura. Dopo due anni, sono ancora in attesa di una sentenza. Intanto la bambina gioca, va all’asilo, cresce. «Quando sarà il momento giusto, le diremo la verità. Così come abbiamo fatto con i magistrati. Siamo sempre stati trasparenti. Emma è nata con la maternità surrogata. Emma è nostra figlia».
Sono stanchi di avere paura, di essere messi in discussione. Intercettati e controllati, come si sentono. «Trattati come due delinquenti. Sappiamo di essere in qualche modo dei pionieri. Non vogliamo creare contrapposizioni fra chi è favorevole e contrario. Rispettiamo le idee di tutti. Ma in Italia mancano norme precise: questo è il vero problema». Se ne vanno come erano arrivati, come due latitanti. «Quello che è successo - dice lei - in fondo è un fenomeno vecchio come il mondo. Chiedere aiuto a un’altra donna. E’ sempre stato così».